Futuro

Rassegnare le dimissioni per non rassegnarsi

Le vere ragioni della Great resignation? La ricerca di un nuovo equilibrio. Tra lavoro e felicità
Credit: Laura Davidson
Tempo di lettura 4 min lettura
23 gennaio 2022 Aggiornato alle 10:00

Emanuela vive a Roma, ha 37 anni, 2 figli, un lavoro manageriale, e non ce la fa più. Tommaso, tra Roma e Milano, le ha provate tutte, dalla consulenza alle startup alle multinazionali, e sempre sentendo la mancanza di qualcosa. Giorgia, in provincia, viene da mesi di lavoro in isolamento domestico, e vuole tornare in ufficio. Mirco era contento del suo lavoro in una piccola realtà locale, ma la sua azienda lo ha “invitato” ad andarsene appena prima del fallimento. Flavia, fiorentina, appena laureata, ha iniziato a lavorare in una grande azienda e sa già che non vuole restarci. I nomi sono di fantasia, le storie no: sono solo alcune tra le tante che si intrecciano nel fitto delle tabelle di dati o dei grafici con le statistiche di un fenomeno che in tanti hanno già raccontato, descritto, analizzato.

Negli Stati Uniti – i primi a registrare i fatti, ma non gli unici a farne esperienza - l’hanno chiamata “The Great Resignation”, espressione coniata dallo psicologo dell’organizzazione Anthony Klotz, oppure “The Big Quit”: un’ondata eccezionalmente alta di abbandoni del posto di lavoro, che si sono attestati a livelli stabilmente più alti dell’epoca pre-pandemica. Non contano tanto i numeri assoluti (tra i 4 e i 5 milioni di dimissionari al mese), ma la differenza, che secondo le elaborazioni di Statista arriva a raggiungere un eccesso mensile di 1 milione rispetto al 2019. In Italia, le cifre sono proporzionali, con un’eccedenza calcolata dal Ministero del Lavoro di 40.000 dimissioni nei primi 10 mesi del 2021 rispetto a due anni prima. Oltre i numeri, tuttavia, ci sono le storie, che invitano a una lettura più sfaccettata rispetto a quelle prevalenti, che riconducono le dimissioni di volta in volta al rifiuto di tornare al lavoro in presenza, alle crisi aziendali, al disagio psichico, magari alla voglia di “cambiare vita” del Milanese Imbruttito o alla crisi del capitalismo - tra le possibili cause che hanno fatto i titoli dei giornali negli ultimi mesi.

Ma la situazione è più complessa, a cominciare dall’origine del fenomeno che i numeri stessi (a partire da quelli delle comunicazioni obbligatorie) ci svelano essere stato già presente, probabilmente accelerato dallo scoppio della pandemia ma tutt’altro che nuovo. Qualche anno fa era già circolato il termine “downshifting”, titolo di un libro del 2000 con sottotitolo Come lavorare meno e godersi di più la vita – eco del nostrano “ozio creativo” di De Masi. Con l’avvento della crisi economica, il ridimensionamento di chi, volontariamente o meno, rinunciava a una parte o a tutte le risorse economiche derivanti dall’attività lavorativa per condurre una vita meno dispendiosa - e presumibilmente meno vincolata - è diventato una tendenza intrecciata non solo con i fattori economici, ma con le questioni di genere, con la domanda di work-life balance, con le nuove potenzialità della sharing economy, oltre che con una crescente domanda di empowerment politico e sociale, abilitata dagli strumenti digitali a disposizione. Al 2009 risale il manifesto “Immagina che il lavoro”, promosso dalle femministe storiche della Libreria delle Donne di Milano, che compendiava tutti questi aspetti e che a distanza di 13 anni suona più che mai attuale: “Immagina che lavoratrici e lavoratori abbiano, nel lavoro per il mercato - non più unica fonte riconosciuta di benessere - la forza contrattuale per negoziare tempi elastici che tengano conto dei tempi di vita. Immagina che il lavoro funzioni con regole trasparenti, sappia riconoscere e valorizzare le diverse competenze e creatività, dando non solo denaro ma anche gratificazioni e riconoscimenti. Immagina che siano premiate la capacità di lavorare insieme e il senso di responsabilità…”.

Un lavoro diverso, armoniosamente integrato con la vita, ottenibile anche senza fare i salti mortali, capace di costruire valore per tutti: un’aspirazione che sembra diventata urgente, non solo a causa della pandemia – che, per inciso, è tutt’altro che finita, e la cui incidenza sui dati sarà quindi ineludibile ancora per un po’, complicandone ancora la lettura. La novità sta nel rifiuto di soprassedere: chi oggi si chiede se un altro lavoro è possibile non è più disposto ad accettare una risposta negativa, che si proponga di cercarne un altro o di aprire un chiringuito, di dedicarsi alla famiglia o a un’attività in proprio, di rinegoziare il contratto o di aumentare soddisfazione e opportunità di carriera. Dietro ciascuna delle storie di “great resignation” c’è l’intenzione di non rassegnarsi, mai più; c’è la domanda sul senso del lavoro per l’uomo, di cui parla il sociologo Luca Pesenti, che non può più restare senza risposta.