Economia

Perché non riusciamo a dire basta al burnout?

Della pandemia si parla al passato, ma l’esaurimento da stress lavoro-correlato è presente più che mai. A febbraio, il think tank Future Forum ha registrato il tasso più alto da maggio 2021: quasi 1 persona su 2
Credit: Igor Rand
Costanza Giannelli
Costanza Giannelli giornalista
Tempo di lettura 6 min lettura
14 marzo 2023 Aggiornato alle 07:00

Carichi di lavoro ingestibili, superlavoro prolungato, ambienti di lavoro tossici. Potremmo pensare che siano la realtà di qualche lavoratore sfortunato, ma sono condizioni professionali sempre più comuni.

La presa, dura a morire, della hustle culture, la retorica del “oggi mezza giornata” rivolto a chi non si sobbarca ore di straordinari gratuiti, la necessità di essere sempre connessi perché sempre “indispensabili”, si traducono in un aumento delle persone che soffrono della cosiddetta “sindrome da burnout”, una condizione che porta a esaurire le proprie risorse psico-fisiche e alla manifestazione di sintomi psicologici come apatia, nervosismo, irrequietezza, demoralizzazione, in alcuni casi accompagnati da manifestazioni fisiche.

Si è parlato molto di burnout durante l’emergenza Covid, soprattutto in relazione ai “lavoratori essenziali”. Poi, come ci siamo dimenticati di loro, abbiamo smesso di parlare anche dello stress lavoro-correlato, salvo stupirci dei numeri dei quiet quitters e delle dimissioni volontarie.

Invece, dovremmo parlarne eccome, non fosse altro perché i tassi continuano a salire: nel sondaggio di febbraio 2023 condotto su 10.243 lavoratori globali dal think tank statunitense Future Forum, il 42% ha riferito una condizione di burnout, la cifra più alta da maggio 2021.

Eppure, anche prima della pandemia la situazione non era affatto rosea. Almeno l’85% degli Italiani, infatti, secondo una ricerca di Assosalute soffriva di disturbi legati allo stress ben prima del paziente zero di Codogno. E non era una condizione specifica del Belpaese, come mostrava uno studio Gallup del 2018, secondo cui il 67% dei lavoratori Usa aveva sperimentato il burnout sul lavoro.

Nel 2019 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha incluso il burnout nella Classificazione Internazionale delle Malattie, definendolo un “fenomeno professionale”, piuttosto che una condizione medica. Secondo la ricerca The Workforce View 2020, realizzata da Adp, il 62% degli intervistati provava stress almeno una volta alla settimana, una percentuale che arrivava al 68% nel Nord America.

Dati che, questo è vero, il Covid-19 ha solo peggiorato. A dirlo non è solo la nostra esperienza empirica, ma anche gli studi: il 67% degli intervistati, secondo uno studio condotto su 1.500 lavoratori statunitensi marzo 2021, riteneva che il burnout fosse aumentato durante l’emergenza.

Eppure, ora della pandemia si parla al passato, il burnout è più presente che mai.

Questo è legato a quello che Sean Gallagher, direttore del Center for the New Workforce presso la Swinburne University of Technology di Melbourne definisce a Time un “effetto residuo in termini di burnout”: molte persone stanno faticando a ritrovare il proprio benessere personale e professionale, anche a causa delle nuove modalità di lavoro che il Covid ha reso prima necessarie e poi parte della quotidianità di moltissimi lavoratori.

Sebbene il lavoro a distanza (smart o meno) abbia offerto ai dipendenti una maggiore autonomia, il rischio della flessibilità è di compromettere la possibilità di staccare realmente. Secondo un sondaggio dall’Adp Research Institute, a esempio, le ore lavorative si sono estese: i dipendenti hanno lavorato 8,5 ore di straordinari non retribuiti ogni settimana, rispetto alle 7,3 ore prima della pandemia.

Reperibilità 24/7, videoriunioni che potevano essere email, disconnessione impossibile e orari estesi sono solo alcune delle conseguenze della pressione delle aziende affinché i dipendenti lavorassero più a lungo, anche nel loro tempo libero, per massimizzare i profitti, e che per moltissimi lavoratori e lavoratrici si sono tradotti in sindrome da burnout.

Burnout che, ha spiegato Alex Soojung-Kim Pang, autore di Riposati: perché ottieni di più quando lavori di meno, a Time, le aziende hanno considerato una responsabilità del lavoratore: “è qualcosa che ti succede. In genere è stato trattato nella stessa categoria della salute e del fitness, piuttosto che un fenomeno che il datore di lavoro consente che si verifichi a causa di determinate condizioni sul posto di lavoro. Il burnout è un problema organizzativo, lasciato all’individuo da affrontare”.

Anche molti dei benefit che sembrano pensati per prendersi cura del benessere dei dipendenti, continua Pang prendendo come esempio delle aziende Big Tech, non sono che l’ennesima trappola per spingerci a lavorare di più: “vantaggi come il lavaggio a secco e gli chef di sushi aiutano a mantenere il dipendente in ufficio il più a lungo possibile, piuttosto che a ridurre il burnout. In effetti, si sta creando un ambiente di lavoro confortevole in cui le persone possono lavorare fino alla morte”.

Anche Gallagher è d’accordo. “Offrire ai lavoratori app di meditazione o yoga di tanto in tanto non è una brutta cosa, ma è una soluzione temporanea e “cerotta” i problemi strutturali: orari eccessivamente lunghi, superlavoro e incertezza su accordi di lavoro flessibili”.

E quindi? Come possiamo cambiare le cose? E, soprattutto, possiamo?

Forse no, dicono i due esperti. Sicuramente no, se continueremo a pensare il mondo del lavoro nel modo in cui lo facciamo adesso, come se qualsiasi cosa facciamo fosse questione di vita o di morte, anche quando non lo è.

“In realtà, dovrebbe esserci solo una frazione delle occupazioni in cui dovrebbe verificarsi il burnout: quando mettersi ripetutamente in gioco potrebbe salvare vite umane”, afferma Pang. “Ma in questo momento, in troppi luoghi di lavoro, dipende dalla tolleranza di un individuo alle lunghe ore, al superlavoro e alla fatica, che ne soffra o meno”.

Per questo, sempre più persone dicono basta e sono pronte a rifiutare un lavoro se influisce negativamente sulla propria vita: secondo il Randstad Workmonitor 2023, lo farebbe più di una persona su 2, il 58% del totale.

Ma per cambiare davvero le cose è la narrazione – del lavoro e del burnout – che deve cambiare: non una responsabilità individuale di chi “non ce la fa” ma un problema strutturale che, come tale, richiede soluzioni organizzative, non solo a livello aziendale ma anche normativo.

Perché, conclude Gallagher, “se le pratiche di lavoro stanno portando al burnout, i datori di lavoro hanno l’obbligo di riportare indietro i propri dipendenti dall’orlo del baratro”.

Leggi anche
Lavoro
di Costanza Giannelli 4 min lettura
Salute mentale
di Sara Capponi 4 min lettura