Diritti

Il 49% delle donne ha subito violenza economica

Esiste una forma di abuso di genere apparentemente più nascosta, ma non per questo meno diffusa: il controllo delle finanze. In occasione del 25 novembre, WeWorld fa il punto della situazione
Credit: Freepik

Se domani sono io,

se domani non torno,

mamma, distruggi tutto.

Se domani tocca a me,

voglio essere l’ultima.

Nei giorni scorsi sui social è circolata tantissimo questa poesia del 2011 dell’attivista peruviana Cristina Torres Cáceres: è stata dedicata a Giulia Cecchettin, la 105° donna uccisa da un uomo nel 2023, l’83° in ambito familiare/affettivo; secondo i dati del Ministero dell’Interno, aggiornati al 12 novembre, 53 sono state uccise da partner o ex. Ora, con il femminicidio a Fano, dove un uomo di 70 anni ha ucciso la moglie, e di Cecchettin, siamo a quota 55.

La violenza è figlia di società maschio-centriche, di norme patriarcali che considerano le donne come una proprietà, un’entità subordinata da controllare, senza alcuna libertà di scelta e indipendenza: basti pensare che il 16% degli uomini ritiene sia giusto che in casa sia il maschio a comandare.

Oltre alla violenza fisica e sessuale, esistono altre tipologie di molestie: verbale, psicologica, economica, spesso meno conosciute perché più subdole, meno evidenti, ma non per questo meno diffuse. Sarebbe sbagliato categorizzarle come “entità” separate, perché ogni forma è interconnessa con le altre (anche se alcune sono più evidenti, come la violenza fisica e sessuale che, non a caso, viene considerata la forma più grave di violenza contro le donne da 1 italiano/a su 2).

Secondo l’indagine di WeWorld e Ipsos, contenuta nel report Ciò che è tuo è mio. Fare i conti con la violenza economica, realizzato in vista della giornata Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, il 49% delle intervistate ha subito violenza economica almeno una volta nella vita; il dato sale al 67% se si considerano le donne divorziate o separate. Eppure, questa forma di violenza è considerata “molto grave” solo dal 59% dei cittadini e delle cittadine.

Che cos’è la violenza economica?

Anche la violenza economica, come tutte le altre forme, si basa su un controllo nei confronti delle donne, ma non è sempre facile verificare quanto pervasiva sia questa sorveglianza. Infatti, nonostante sia una realtà diffusissima, non esiste ancora una definizione condivisa nei diversi ordinamenti statali di cosa costituisca una violenza economica. In generale, tutti i comportamenti che puntano a controllare l’abilità della donna di “acquisire, utilizzare e mantenere” risorse economiche rientrano nell’abuso che, a sua volta, è spesso parte di un più ampio ciclo di violenza (fisica, psicologica ecc.).

Nel mondo, 1,4 miliardi di donne vivono in Paesi che non riconoscono la violenza economica nei loro sistemi legali o non forniscono protezione alle vittime, ricorda WeWorld. Secondo l’European Institute for Gender Equality, il 12% delle europee ha subito abusi che includevano violenza economica fin dai 13 anni. Tuttavia, scrive la onlus italiana nel suo report, “la violenza economica è ancora scarsamente riconosciuta e viene spesso confusa con altre forme di violenza, come quella psicologica. Si può, pertanto, ipotizzare che allo stato attuale il fenomeno sia largamente sottostimato”.

Ciò può portare a una svalutazione dell’abuso economico: quando a indiane e indiani, infatti, è stato chiesto di identificare comportamenti di violenza domestica, quasi il 64% del campione ha scelto quella economica, mentre il 67,5% la psicologica e il 75% l’abuso verbale. Situazione analoga anche in Turchia, dove la violenza economica è stata spesso indicata per ultima dalle donne a cui è stato chiesto di elencare forme di violenza domestica. Ancora, nel Regno Unito 2 persone su 3 hanno detto di non aver mai sentito il termine “abuso economico”; negli Stati Uniti il tasso tocca il 78%.

L’Italia non rappresenta certo un’eccezione: 10 anni fa WeWorld aveva rilevato una scarsa propensione nel considerare la violenza economica una forma di molestia “a tutti gli effetti” rispetto ad altre forme considerate più gravi, come per esempio la violenza fisica o sessuale. Eppure, secondo l’indagine La cultura della violenza (realizzata sempre da WeWorld e Ipsos nel 2021), il 12% delle intervistate aveva dichiarato di essere stata controllata dal proprio partner nella gestione dei soldi.

In molti casi, poi, questo controllo patriarcale porta le donne a non essere indipendenti: la ricerca condotta dalla società Episteme nel 2019 ha rilevato che il 37% delle italiane non ha un conto corrente, mentre secondo il sondaggio della Global Thinking Foundation del 2022, il 44% delle donne non ha accesso alle risorse economiche familiari, il 23% ha un partner che sabota il suo lavoro o le sue opportunità e il 22% un compagno che non vuole espressamente che lavori.

La violenza economica: un po’ di dati

A settembre l’organizzazione italiana indipendente WeWorld ha condotto insieme a Ipsos un’indagine intervistando 1.200 persone (di cui 209 donne separate o divorziate) per valutare la percezione di italiani e italiane relativamente alla violenza di genere e, in particolare, economica.

Dall’indagine è emerso che a 1 donna su 10 è stato negato di lavorare dal partner e che, secondo quasi 1 italiano/a su 2, le donne sono più spesso vittime di violenza economica perché hanno meno accesso al mercato del lavoro rispetto alla loro controparte maschile.

Anche ostacolare le carriere delle proprie compagne è violenza economica: nel 2018, ben 104 economie mondiali su 189 avevano leggi che vietavano alle donne di svolgere determinate professioni, mentre 59 non avevano norme relative alle molestie sui luoghi di lavoro; in 18 casi, inoltre, i mariti potevano legalmente impedire alle mogli di lavorare.

Inoltre, dalla ricerca di WeWorld è emerso che più di 1 donna separata o divorziata su 4 (28%) ha subito le decisioni finanziarie del suo partner senza essere stata consultata prima; che, dopo la separazione o divorzio, il 61% delle donne ha vissuto un peggioramento della propria condizione economica; che il 37% non ha ricevuto la somma di denaro concordata per la cura di figli e figlie.

Come si riconosce la violenza economica?

Anche se rientra tra le tipologie più subdole e quasi nascoste, anche la violenza economica presenta alcuni comportamenti riconoscibili.

C’è il controllo con cui si vuole impedire o limitare l’utilizzo delle risorse finanziarie della vittima e il suo potere decisionale (per esempio, facendo domande su come sono stati spesi i soldi, impedendo di avere o accedere a un conto corrente, pretendendo di autorizzare qualsiasi spesa); c’è lo sfruttamento economico, ovvero quando l’autore della violenza utilizza le risorse della vittima a suo vantaggio (rubando denaro, proprietà o beni). Infine, c’è il sabotaggio che si verifica quando viene impedito alla donna di cercare, ottenere o mantenere un lavoro o intraprendere un percorso di studi, distruggendo per esempio gli oggetti necessari a lavorare o studiare (computer, libri ecc.), non prendendosi cura di figli e figlie, impedendo quindi alla donna di lavorare o studiare.

Infine, un altro comportamento abusante è il “sessismo benevolo”, una delle modalità di controllo più diffuse, che si verifica quando il partner si offre di gestire le finanze familiari in quanto persona “più esperta”, oppure suggerisce alla donna di lasciare il lavoro per permetterle di prendersi cura della famiglia o per “non farla faticare”.

Gli effetti della violenza economica

Le donne vittime di violenza economica spesso, proprio a causa di questo abuso, hanno una limitata comprensione dei concetti finanziari di base, condizione che le porta a dubitare di sé stesse e a non cercare aiuto. Inoltre, hanno difficoltà a lasciare il proprio partner: negli Stati Uniti, il 73% delle vittime di violenza economica ha spiegato di essere rimasta con il proprio compagno a causa di preoccupazioni finanziarie per mantenere se stessa e i propri figli.

In questi casi, poi, è stata rilevata anche una crescita dei debiti per le donne, sia durante che dopo la fine del rapporto con il partner: per indicare questa condizione, è stato coniato il termine “debito forzato” (coerced debt), ovvero il debito accumulato a nome della vittima da parte del compagno attraverso minacce, uso della forza o frode.

Un altro effetto è la difficoltà per le donne di accedere ai beni di prima necessità, personali e alle proprietà: in alcuni casi, per esempio, sono state sottratte le chiavi di casa, dell’auto, impedendo alle vittime di fuggire o andare a lavoro. “Questa modalità - scrive WeWorld - viene spesso sfruttata in maniera intenzionale per monitorare i movimenti della vittima, sovrapponendosi all’abuso emotivo”.

Inoltre, ci sono gli impatti sulla salute fisica e mentale (come per qualsiasi altra forma di abuso) e conseguenze economiche; in particolare “nella letteratura in materia di violenza economica, si parla di economic ripple effect (effetto di oscillazione economica) degli abusi domestici - spiega la onlus italiana - per cui le conseguenze economiche indirette e di lunga durata si ripercuotono sulla vita delle vittime, anche molto tempo dopo la fine dell’abuso”.

Infine, la violenza economica pregiudica anche l’educazione e il lavoro (in quanto riduce le opportunità di istruzione e sviluppo) e il benessere di figli e figlie (potrebbero esserci, per esempio, problemi con l’accesso ai pagamenti per il mantenimento o per le cure mediche: in Australia, il 46,1% delle donne intervistate nel 2010 riteneva che il proprio abusatore avesse danneggiato l’istruzione dei figli).

Come (re)agire?

Prevenire, riconoscere, intervenire sono le 3 attività identificate da WeWorld per combattere (sempre, non solo il 25 novembre) la violenza economica contro le donne. Ma da dove partire? Dall’educazione: solo 1 persona su su 3, infatti, si sente veramente preparata sui temi legati al denaro e alla finanza; le donne, soprattutto le divorziate o separate, sono quelle che si sentono meno sicure.

Oltre all’introduzione di corsi dedicati all’educazione sessuo-affettiva, infatti, sarebbe utile per le giovani generazioni seguire anche curricula dedicati all’istruzione economico-finanziaria. Riguardo la possibilità di istituire programmi scolastici che educhino piccoli e piccole all’indipendenza economica e insegnino loro a gestire il proprio denaro, l’88% del campione coinvolto nell’indagine di WeWorld crede che si debba partire dalle scuole elementari e medie.

Anche la scelta di una definizione condivisa di violenza economica che ne specifichi i comportamenti potrebbe aiutare uomini, donne, adolescenti e giovanissimi a riconoscerla e combatterla. Servono poi più finanziamenti al reddito di libertà (ovvero, il “sostegno economico per donne che cercano di allontanarsi da situazioni di violenza e sono in condizione di povertà”, spiega WeWorld), più attività di empowerment femminile e prevenzione.

Ma il cambiamento, prima di tutto, deve partire dalle società, da uomini e donne, dai media e dalla loro narrazione romanticizzata degli omicidi, dei “delitti passionali”, fatti perché “l’amava troppo” anche se “era una bravo ragazzo”. Deve partire dal modo in cui ogni giorno vengono raccontati gli abusi di genere che, come abbiamo visto, sono tanti, fisici e psicologici. Per farlo, l’unico modo è riconoscerli per quello che sono: violenze.

Siamo stanche di essere sfruttate, controllate, violentate, abusate, uccise; stanche di dover continuamente ascoltare frasi come “Ma non tutti gli uomini”: chiamarsi fuori, deresponsabilizzarsi, non servirà. Bisogna riunirsi, collaborare, agire subito per tutte le donne che ogni giorno subiscono molestie; per le 106 uccise quest’anno. Per far sì che non accada più.

Leggi anche