Diritti

Al sicuro, mai

Siamo stanche di sentirci in pericolo quando torniamo a casa la sera, di tenere le chiavi strette tra le nocche, pronte a reagire. Di non essere ascoltate, credute. In città il senso di sicurezza è un miraggio
Credit: Riccardo Mion 
Tempo di lettura 6 min lettura
20 ottobre 2023 Aggiornato alle 06:30

Sicurezza, questa sconosciuta. Si moltiplicano le denunce digitali, le condivisioni di persone che, esasperate, impaurite e arrabbiate, cercano di dare voce a un disagio che non ha nulla di nuovo. Le molestie di strada non sono divenute realtà solo di recente, anzi, ma è da poco che se ne parla in maniera critica, consapevole, ribelle perfino. I social in questo sono diventati uno strumento, uno spazio in cui cercare di esprimere un male profondo e al contempo riconoscersi in altre storie, capire la dinamica, sentirsi ascoltate e meno sole.

Perché è vero che in città la percezione di sicurezza è un miraggio, qualcosa di vagamente immaginabile, ma non esperibile. Sentirsi sicure e sicurə è impossibile. A Milano, come in molti altri ambienti, si respira cultura patriarcale dietro ogni angolo. Questo perché gli spazi da attraversare non sono neutri. Al contrario, sono ambienti che reiterano dinamiche violente. Le incentivano e le tutelano. Spesso, le insegnano. In un sistema culturale iniquo, che fonda la sua cultura sociale sull’oppressione delle soggettività marginalizzate, la violenza è la norma.

Dai fischi agli sguardi protratti, dalle parole agli avvicinamenti, arrivando poi agli inseguimenti e al contatto forzato, le molestie di strada vengono protette dalla narrativa dominante che le racconta come innocue attenzioni, complimenti, apprezzamenti. La cultura sessista, che quindi opera sulla base di discriminazioni di genere, propone un modello di maschilità egemone che esiste imponendosi sulle altre identità. La molestia di strada è un esercizio di potere speso sui corpi di altre persone, considerate meri oggetti di cui disporre a proprio piacimento. Cose su cui piantare lo sguardo, corpi da fare a pezzi per fruirne a bocconi, vite da limitare per espandere il proprio spazio di esistenza.

La strada è il territorio su cui si scatena la violenza dell’estraneo, di chi si considera soggetto ed è considerato così dal sistema patriarcale. Sarebbe però impreciso non specificare che anche le molestie di strada non arrivano da sole, ma sempre in pessima compagnia. La violenza di genere si sovrappone ad altre forme di violenza che rendono gli spazi pubblici, condivisi, più pericolosi per alcune persone.

Le donne razzializzate, a esempio, subiscono forme di molestie di strada con una frequenza maggiore rispetto alle donne bianche, proprio a causa del razzismo imperante. La statistica aumenta in volumi quando si parla di persone queer, non bianche, disabili, con status giuridici non riconosciuti e/o senza dimora. E via così, inseguendo quel terrificante intarsio di fratture che sono le diseguaglianze. La strada è paura e incertezza, lo è sempre stata.

A fronte delle denunce social potrebbe arrivare una nuova ondata di consapevolezza. Potrebbe. Ma, più probabilmente, arriverà solo una nuova spinta alla securitizzazione, un processo di chiusura e monitoraggio delle strade che non metterà al sicuro le persone marginalizzate, anzi. Le città, infatti, hanno un modo sinistro di rispondere alla violenza di genere: la ignorano finché possono, lasciando che ricada nell’ordinaria amministrazione e reagiscono con implementazioni improvvise nella presenza delle forze dell’ordine nelle strade. Da un lato, quindi, la condonano scegliendo la via del silenzio assenso, per poi intervenire in maniera impropria quando l’opinione pubblica è satura e chiede risposte.

La messa in sicurezza delle città, di solito, segue i profili del controllo e della militarizzazione, due fenomeni che non mettono al sicuro chi subisce la violenza di genere, ma che tutt’al più offrono una dis-percezione di sicurezza a chi non la vive, a quello stesso soggetto privilegiato che la compie. Le forze dell’ordine, a esempio, esercitano controllo mediante la minaccia dell’uso della forza, un elemento che ha in sé una forte componente machista, impositiva e patriarcale.

Non è un caso che gli stessi reparti mobili della polizia di Stato, nel pieno svolgimento delle proprie mansioni, siano spesso colti a usare forme di violenza psicologica e verbale sessista. Ne è stato esempio ultimo lo sgombero avvenuto a Sairano in cui, tra le minacce e gli insulti, non sono mancati i riferimenti sessuali espliciti volti a colpire le attiviste. Addirittura un poliziotto è stato visto colpire più volte i genitali maschili degli attivisti, un gesto altamente simbolico che ricorda quanto la distruzione psicologica mediante l’uso della violenza sessista sia insito nelle modalità di azione delle forze dell’ordine.

Militari e polizia, gli stessi enti che peccano di profilazione razziale, quel fenomeno per cui le persone razzializzate sono fermate e trattenute con incidenza maggiore rispetto alle persone bianche. Più militari e più polizia, per molte donne significa registrare un aumento delle violenze subite, anche solo in termini di violenza secondaria. Infatti, anche essere ascoltate e credute non è scontato. Sembra quasi che bisogna essere in possesso di un bollino di credibilità per poter effettuare una denuncia o cercare aiuto, un certificato che viene riconosciuto a pochissime persone.

Lo sconforto è tanto, viene da chiedersi cosa si possa fare, effettivamente, per non avere più paura, per abitare gli spazi sociali in sicurezza, per sentirsi bene. Per poter tornare a casa la sera da sole senza stringere le chiavi tra le nocche o cercare di ricordare in quale tasca si sia nascosto lo spray urticante. La verità, la scomodissima e impegnativa verità, è che serve un cambio culturale profondo. Un’educazione sociale diversa. Educazione femminista e che sia femminista intersezionale, quindi in grado di cogliere tutte gli intrecci discriminatori che si realizzano quotidianamente nelle nostre società.

Si può realizzare a partire dalle scuole, certamente, ma deve essere accompagnata da una rieducazione di chi abita gli ambienti decisionali, da chi determina l’agenda politica, da chi può effettivamente emanare provvedimenti capaci di generare sicurezza o peggio, di eroderla ulteriormente. La domanda non è tanto come ottenere più sicurezza, ma quale sicurezza e per chi?

La violenza di genere non se ne andrà finché il sistema patriarcale non sarà raso al suolo, spazzato via e sostituito con una cultura femminista. Ora la violenza di genere, nella sua forma più pubblica, è di nuovo sulla cresta delle notizie. Si spera che questa sia la volta buona, che stampa e politica non si limitino a cavalcare l’onda per aumentare il proprio bacino di utenza o a spingere agende politiche militariste, ma che, invece, inizino a interrogarsi su come cambiare realmente le cose. Perché essere una persona marginalizzata significa sapere di non essere mai al sicuro se non in quegli spazi politici creati apposta e in grado di riprendere persino le strade. Una a una.

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