Culture

Quando il lavoro si fa sporco

Dalle tintorie di Kolkata alle foreste in Paraguay; dalle coltivazioni di caffè colombiane alla Silicon Valley cinese: Jan Stremmel ci porta in giro per il mondo con 10 storie incentrate sullo sfruttamento: umano e ambientale
Valeria Pantani
Valeria Pantani giornalista
Tempo di lettura 7 min lettura
24 settembre 2023 Aggiornato alle 11:00

In qualche parte nel mondo, esiste una tintoria dove migliaia di persone lavorano a contatto con sostanze chimiche tossiche; esistono “ladri di sabbia” che riforniscono illegalmente i cantieri edili degli hotel; taglialegna disboscatori e lavoratrici “dei fiori” sfruttate.

In una parte del mondo, esistono ex pescatori senza più un lago in cui pescare; in un’altra ancora, invece, un “mare di plastica” che avvolge le serre degli ortaggi. Esistono coltivatori di caffè in crisi e oranghi a rischio estinzione; catene di montaggio di smartphone e orfanotrofi per elefanti. Queste sono tutte realtà geograficamente distanti tra loro, ma rese “vicine” da un elemento comune: lo sfruttamento.

Il giornalista tedesco Jan Stremmel si è messo nei panni dei lavoratori sfruttati, sparsi negli angoli del Pianeta, per accompagnarli durante la loro routine lavorativa. Sono così nati i 10 racconti contenuti in Lavori sporchi. Storie dalla sala macchine della nostra vita comoda (Il Margine, 192 pagine, 17 euro). Filo conduttore delle storie: la personalissima esperienza dell’autore.

Attraverso foto e parole, Stremmel ci catapulta in Asia, Africa, America Latina e Spagna per un viaggio attorno al mondo, capace di farci vivere (almeno con il pensiero) una tipica giornata di chi è al di là della “vita comoda”. E noi, da lettori, non possiamo fare altro che immergerci in quelle storie e viaggiare insieme a lui.

Tutto parte nelle tintorie di Kolkata, nel Bengala occidentale, dove il salario minimo è di 137 dollari al mese e migliaia di persone lavorano con sostanze corrosive e cancerogene. “La tintura è la fase più nociva nella produzione dei tessuti - racconta Stremmel - Per tingere il cotone o le fibre sintetiche occorrono centinaia di sostanze chimiche. La maggior parte di esse è tossica, corrosiva”. Qui a Kolkata, però, lo sfruttamento non è solo umano, ma anche ambientale. Le falde acquifere, infatti, sono inquinate proprio dalle sostanze tossiche industriali. Eppure, “per lo Stato un milione di pesci morti è più accettabile di un milione di posti di lavoro”.

L’autore poi si sposta a Capo Verde (Africa), per incontrare i “ladri di sabbia”, che riforniscono illegalmente i cantieri edili degli hotel turistici. “Il lavoro di Dita [una delle lavoratrici incontrate sul posto, ndr] era rubare la sabbia e venderla. Non aveva scelto quel lavoro per per il piacere di stare all’aria aperta. Si diventava ladri di sabbia perché i bambini avevano fame e perché non c’era altro modo per cambiare le cose”. Ma mentre Dita “ruba” per sopravvivere, interi ecosistemi muoiono. La sabbia, infatti, scarseggia nel mondo: dopo l’acqua, è la seconda risorsa più consumata.

La terza storia è ambientata in Paraguay; i protagonisti sono i taglialegna che, producendo carbone dal legname tropicale, hanno già disboscato un quarto della copertura forestale del Paese. Da anni gli ambientalisti denunciano il disastro che sta avvenendo, eppure pochissimi ne sono a conoscenza. Il Paraguay “è costituito per la maggior parte dal Gran Chaco, una regione di foreste secche e savane di arbusti spinosi. Si tratta della seconda foresta primordiale più grande del Sudamerica dopo la regione amazzonica”. E nessun luogo dell’America Latina si sta deforestando così velocemente: dal 2000, sono stati distrutti 6 milioni di ettari di foresta, rilasciando 866 milioni di tonnellate di anidride carbonica. E anche qui, a rimetterci sono le persone e la terra che li ospita: secondo Greenpeace, in Paraguay circa 200.000 lavoratori (mal pagati) sono impiegati nel settore della produzione del carbone.

Stremmel poi si sposta in Kenya, “dove lo Stato non si impiccia in cose tipo salari minimi”, per fare la conoscenza delle lavoratrici “dei fiori”. E dove si interroga sulla moralità del comparto florovivaistico kenyano: “Il fatto che le rose vengano coltivate in Kenya e poi trasportate in Europa per via aerea è per me pura follia: è un prodotto che serve solo a decorare, che viene coltivato in una zona dove l’acqua scarseggia, trasportato in aereo dall’altra parte del mondo e che, nel migliore dei casi, finisce nei rifiuti organici dopo una settimana. L’etichetta del commercio equo e solidale non è allora una presa in giro?”.

Il giornalista, durante il suo viaggio, incontra anche gli ex pescatori del Lago d’Aral, un tempo grande quanto l’Irlanda e ora prosciugato. Per secoli l’area è stata una delle più ricche dell’Asia centrale; poi, è arrivato il cotone che ha asciugato tutto. “Per questo ero qui: in nessun altro luogo al mondo le conseguenze del nostro consumo possono essere percepite in modo altrettanto diretto e nella loro forma più brutale. Certo, ovunque l’uomo ha abbattuto foreste, modificato il corso dei fiumi e avvelenato i terreni. Ma da nessuna parte ha trasformato un intero mare in un deserto, nel nome del profitto”.

La tappa successiva è la Spagna: Almería, per la precisione, e il suo “mare di plastica” nelle serre dove si coltivano gli ortaggi. Qui i blanqueadores (“sbiancatori”) devono proteggere frutta e verdura dal potente sole estivo andaluso, camminando lungo il telone che avvolge la serra e spruzzando acqua. Ma il vero sfruttamento, scrive Stremmel, lo vivono i lavoratori che si trovano sotto o dentro i teloni: “Molti erano fuggiti attraverso il Mediterraneo e ora stavano sistemando le piantine nella lana di roccia pungente, dentro capannoni di plastica senza ventilazione e con 40 gradi”. Capita poi che le pellicole si buchino e debbano essere sostituite: ciò provoca 33.000 tonnellate di rifiuti di plastica ogni anno.

Da frutta e verdura si passa al caffè, attraversando l’Atlantico e arrivando in Colombia, dove le coltivazioni dei chicchi sono quasi del tutto abbandonate per colpa del progressivo crollo del loro prezzo sul mercato mondiale. “La causa, così come la soluzione, siamo noi - scrive l’autore - Se compriamo caffè comune a basso costo, sosteniamo il dumping dei prezzi. Solo il caffè del commercio equo e solidale può sfamare le persone. (…) Se gli agricoltori non hanno modo di mettere da parte i soldi per modernizzare le attrezzature, questi potrebbero essere gli ultimi anni in cui sarà possibile bere un buon caffè”. A tutto ciò si aggiunge il problema della crisi climatica, che minaccia le varietà: “le aree idonee alla coltivazione del caffè si dimezzeranno entro il 2050”.

Nel suo viaggio, Stremmel incontra anche diversi animali, tra cui gli oranghi del Borneo (Asia), “che ospita la più grande foresta pluviale del pianeta dopo i bacini dell’Amazzonia e del Congo”: qui i primati sono minacciati dalla deforestazione dovuta dalla richiesta di olio di palma. “Vicino ai villaggi si attraversano interminabili distese di palme tozze, disposte in fila come le croci di un cimitero militare. Sono le piante su cui crescono i soldi”. Ogni anno, 66 milioni di tonnellate di olio di palma finiscono in alimenti, creme e serbatoi delle auto. “Purtroppo, l’area in cui cresce la pianta ospita anche l’ecosistema più ricco di biodiversità del pianeta”.

Poi, all’improvviso, si torna in Asia, in Cina, per visitare la Silicon Valley del dragone: Shenzhen, dove milioni di lavoratori sfruttati (spesso provenienti da aree rurali, alla ricerca di opportunità migliori) producono i nostri device digitali. “Quasi tutto ciò che funziona con l’elettricità e che rende la nostra vita più confortevole proviene almeno in parte da qui: telefoni cellulari, tablet, smartwatch, monopattini… Shenzhen è la capitale mondiale dell’alta tecnologia”.

Il cerchio si chiude nelle savane africane, in un orfanotrofio ricco di letti a castello per cuccioli di elefanti, rimasti soli dopo la morte delle madri per bracconaggio (una zanna vale 1.000 dollari per i kenyoti). “C’era Karisa, un elefantino di sei mesi: per due giorni aveva protetto la madre dalle iene dopo che si era accasciata a terra, con la zampa anteriore crivellata di colpi e fori di proiettile in testa. Due giorni prima era entrata in un campo di mais per nutrire il suo piccolo”.

E così, in qualche parte nel mondo (o in varie parti) esistono luoghi “sporchi” e “sfruttati”, umanamente e ambientalmente. In qualche altra parte, invece, noi guardiamo questi luoghi “dalla nostra vita comoda”.

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