Ambiente

Olio di palma: fermare la deforestazione non basta

Tra le ricadute del settore c’è la perdita di biodiversità. L’idea di destinare terreni considerati degradati alla coltivazione metterebbe a repentaglio la sopravvivenza di molte specie animali
Credit: Nazarizal Mohammad/ Unsplash  
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7 dicembre 2022 Aggiornato alle 06:30

Tra le polemiche che riguardano la produzione dell’olio di palma, a prescindere da quelle relative agli effetti sulla salute, vi è quella generale relativa all’avere seriamente contribuito alla deforestazione d’importanti zone pluviali in regioni quali l’Indonesia e la Malesia.

Da qui l’impegno di vari produttori a fermare la deforestazione volta alla costituzione di nuove coltivazioni: l’impegno è stato assunto a partire dal 2018 attraverso l’accordo conosciuto come Rspo Zero Deforestation (Rspo sta per Roundtable on Sustainable Palm Oil) che riunisce oltre 5000 operatori del settore.

In tal modo si è posto un freno alla perdita di ampie zone forestali e, quindi, anche alla perdita di biodiversità che le foreste in argomento assicurano.

Rimane il tema di produrre olio di palma per rispondere a una continua crescente domanda globale, che richiede comunque la produzione di oli vegetali per l’industria alimentare e non solo (tali oli si usano a esempio anche per la produzione di saponi).

E l’economia, si sa, è la scienza che conduce l’uomo a operare scelte in modo opportunistico, individuando sempre nuove strade al modificarsi delle situazioni nelle quali deve operare.

Così se non si possono disboscare foreste pluviali, i cui terreni meglio si prestano alla coltivazione della palma, possono divenire convenienti quei terreni che prima non si erano considerati tali perché meno redditizi, sotto il profilo produttivo, rispetto alle aree forestali.

Da qui nasce il progetto Opal (Oil palm adaptive landscapes), lanciato dall’agenzia svizzera per la cooperazione internazionale, dove la deforestazione sarebbe evitata attraverso la individuazione di terreni considerati degradati in varie zone del mondo.

L’attenzione si è quindi volta a terreni degradati, praterie delle zone subtropicali (per intenderci, parliamo anche di savane) e foreste secche (che sono composte da vegetazione che perde le foglie per resistere alla carenza di piogge) che coprono ampi spazi sia in America Latina sia in Africa: l’utilizzo di tali aree si presta anch’esso al rischio di perdita di biodiversità in habitat da noi umani considerati poco ospitali, ma regno di altri specie viventi che hanno una diversa percezione.

Tra le specie che vivono in tali aree troviamo il pangolino gigante della Tanzania, i pappagalli ara gola blue della Bolivia, le rane razzo di Hellmich nella Colombia e molte altre specie meno appariscenti, ma non per questo non degne di protezione.

La bassa produttività di tali aree, sotto il profilo della produzione dell’olio di palma, può essere poi implementata con le irrigazioni che potrebbero togliere acqua utilizzata per altri scopi.

Altro aspetto da considerare è, inoltre, l’impatto che le coltivazioni di tali aree può avere sulle specie animali che compiono migrazioni.

Aree non solo abitate dagli animali e piante, ma anche da popolazioni locali che da esse traggono sostentamento.

Il rischio è concreto: si tratta di aree stimate in circa 167 milioni di ettari potenziali per l’utilizzo, di cui circa 95 milioni sarebbero costituiti da praterie e foreste secche (lo attesta uno studio dell’Università di York, pubblicato su Nature Ecology and Evolution Journal, di cui ha dato notizia la stessa università il 28 novembre ultimo scorso nel proprio blog). Le coltivazioni di queste ultime potrebbe porre in pericolo l’esistenza di circa il 30% delle specie a rischio presenti nella lista rossa redatta dalla International union for conservation of nature.

Da qui l’invito a mantenere l’attenzione alta, senza volere certamente criminalizzare un’industria importante per assicurare beni essenziali e che mostra di avere attenzione ai temi della sostenibilità: un invito volto non solo agli operatori ma anche agli enti e i governi sovrannazionali e nazionali al fine di assicurare controllo e coordinamento su scelte che possano avere impatti devastanti.

L’importante è ricordare che per salvare il pianeta non bastano accordi a contenuto limitato: non è sufficiente perché ogni recinto protegge quel che è all’interno, ma lascia ampia libertà di azione per quanto rimane fuori.

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