Storie

Non Una di Meno Palermo: «Servono più finanziamenti»

«I centri anti violenza sono pieni di lavoro; non hanno fondi», ha spiegato Roberta Ferruggia, attivista del movimento femminista e transfemminista e organizzatrice della manifestazione Ti Rissi No, a La Svolta
In primo piano, Roberta Ferruggia
In primo piano, Roberta Ferruggia

«Gli stupri di gruppo a Palermo e Caivano, o l’ultimo omicidio a Marsala, ci dimostrano che non possiamo più parlare di casi isolati o di raptus. La violenza di genere è un problema strutturale e strutturato nella nostra società».

Queste le parole di Roberta Ferruggia, tra le organizzatrici di Ti Rissi No (Ti ho detto no), la mobilitazione regionale transfemminista contro la violenza di genere del movimento Non Una di Meno - Palermo, che sabato è partita con il suo corteo da Piazza Bellini.

Gli attivisti hanno chiesto (e continuano a chiedere) una città a misura dei bisogni e dei desideri di ogni cittadina e cittadino. «Gli episodi più eclatanti, o che vengono raccontati come tali, sono la punta dell’icerberg: femminicidi, stupri, ma non solo. Questa è solo la parte che emerge. Poi, sotto, abbiamo una serie di violenze di cui non si parla: dal catcalling per strada al divario salariale, al gender pay gap», ha spiegato Ferruggia a La Svolta.

Nell’Unione europea le donne guadagnano in media il 13% in meno rispetto ai colleghi uomini e il divario retributivo di genere è rimasto sostanzialmente immutato negli ultimi 10 anni.

Nel frattempo, il Parlamento italiano cerca di cambiare passo. Nei giorni scorsi la Camera ha approvato in via definitiva la proposta di legge sulle nuove norme al Codice rosso per le vittime di violenza domestica e di genere: viene introdotta un’ipotesi di avocazione delle indagini preliminari da parte del procuratore generale della Corte d’appello quando, nei casi di delitti di violenza domestica o di genere, il pubblico ministero non senta la persona offesa entro 3 giorni dall’iscrizione della notizia di reato.

Sicilia, medaglia d’oro per obiettori di coscienza

«Non bisogna dimenticare tutto ciò che riguarda il definanziamento della sanità e il diritto all’aborto», sottolinea Ferruggia. Secondo l’indagine Mai dati!, elaborata dalle giornaliste Chiara Lalli e Sonia Montegiove, pubblicata con l’associazione Luca Coscioni, in Italia ci sono almeno 15 ospedali in cui il 100% dei ginecologi è obiettore di coscienza.

La Sicilia è la Regione con la maggior percentuale di obiettori, l’85%. Secondo i dati raccolti nella relazione annuale del ministero della Salute sulla legge 194/78 (riferita all’anno 2020), i ginecologi obiettori in Sicilia sono 307, gli anestesisti 331 (il 73,1%, contro la media nazionale del 44,6%). Per il personale non medico: l’86,1% è “obiettore di coscienza” contro una media nazionale del 36,2%.

Educazione sessuale: «Se a farla è un obiettore o un insegnante di religione, allora è un problema»

In Italia, l’educazione sessuale e all’affettività a scuola non è un insegnamento obbligatorio, a differenza di gran parte dei Paesi europei. Ma da quest’anno il Ministro dell’Istruzione e del merito, Giuseppe Valditara, vorrebbe portarla nelle classi.

In cantiere c’è un progetto che partirà dalle prossime settimane, andando (in parte) a colmare un grande vuoto. «L’assenza dell’educazione sessuale e all’affettività è una gravissima mancanza», dice Ferruggia a La Svolta.

Tra le principali iniziative organizzate dal movimento palermitano Non una di Meno, rientra anche l’organizzazione di incontri sulle questioni di genere e sulla salute negli istituti scolastici. «Avendo il contatto diretto con studenti e studentesse, ci siamo rese conto che vogliono sfruttare al massimo questi momenti, perché ne sentono la mancanza».

Secondo l’attivista, l’educazione sessuale a scuola va presa con le pinze: «Se a farla sarà un obiettore di coscienza o un insegnante di religione, allora diventa un problema, perché tratterà l’aborto come una questione etica e morale. Quindi, andrà a sconsigliare o si dirà che è sbagliato farlo».

Femminicidi: un po’ di numeri

Quest’anno in Italia ci sono stati 68 femminicidi, 1 transcidio, 5 suicidi e 6 morti in fase di accertamento indotti (o sospetti indotti) da violenza e odio etero-cis-patriarcale, per un totale di 80 casi. Almeno 11 i tentati femminicidi e altre 5 le persone coinvolte e uccise perché presenti al momento del femminicidio. Questi i numeri registrati dall’Osservatorio nazionale femminicidi, lesbicidi trans*cidi di Non una di Meno, aggiornati all’8 settembre.

In 17 Regioni si è registrato almeno 1 caso. In cima alla classifica la Sicilia, con il 16,3% dei casi, seguita da Lombardia (11,3%) e Lazio (10%). «Questi sono i dati, però bisogna evitare di fare della violenza di genere anche un discorso di classe o geografico», sottolinea Ferruggia. In generale, secondo l’attivista, le carenze strutturali in cui versano i luoghi di formazione o i presidi sanitari (quando presenti) sono fattori che contribuiscono al dilagarsi del fenomeno nel Sud del Paese.

Femminicidi: il killer più giovane ha 17 anni; il più anziano, 88

La vittima più giovane ha 13 anni, la più anziana 95 e l‘età media è di 52 anni. Alla violenza patriarcale e di genere si somma a volte anche la razzializzazione delle persone uccise: Albania, Moldavia, Pakistan, Repubblica Dominicana, Romania, Ucraina, oltre all’Italia, sono i Paesi di origine delle vittime.

Sempre Albania, insieme a Guinea, Marocco, Pakistan, Moldavia, Nigeria, di nuovo Ucraina e Italia sono, invece, i Paesi di origine delle persone colpevoli o presunte. Nei 69 casi accertati di omicidio, il colpevole o presunto/a ha un’età media di 55 anni. Il più giovane ha 17 anni al momento del delitto, il più anziano 88.

In 3 casi l’identità dell’assassino rimane ancora sconosciuta. In 28 casi l’assassino era il marito, il partner o il convivente. In 12 casi, a compiere il gesto è stato l’ex partner da cui la persona uccisa si era separata o aveva espresso l’intenzione di separarsi.

«La violenza di genere non si può risolvere con una denuncia o militarizzando le città»

«È chiaro che le istituzioni nazionali, regionali e comunali non hanno un piano di contrasto e prevenzione - continua l’attivista - Abbiamo aspettato quasi una vittima ogni giorno per provare a inserire l’educazione sessuale a scuola. C’è bisogno di più finanziamenti e centri anti violenza. Quest’ultimi sono molto carichi di lavoro e non hanno i fondi sufficienti. Non ci sono abbastanza centri di ascolto. Bisognerebbe creare una rete di servizi da mettere a disposizione di tutti, ma soprattutto, che siano gratuiti».

Il reddito di autodeterminazione potrebbe essere un aiuto importante, secondo Ferruggia: «Si creerebbe un welfare capace di aiutare le donne a fuggire da una situazione di violenza. La maggior parte di queste si svolge all’interno delle mura domestiche e il fattore economico può essere determinante. Se non ho una mia indipendenza economica perché non mi pagano abbastanza e sono costretta a lavorare in nero, essere precario o sottopagata, come faccio a fuoriuscire da questa situazione e lasciare il mio compagno? Può sembrare una cosa banale ma non lo è».

La soluzione, secondo l’organizzatrice, non può essere la denuncia: «Il fenomeno della violenza di genere è un problema strutturale e non si può risolvere nemmeno militarizzando le città, come stanno provando a fare a Palermo. Una delle prime disposizioni da parte del prefetto e del Comune è rivolta a intensificare le forze dell’ordine. Ma non sarà la polizia per le strade della mia città a far in modo che io cammini di notte sentendomi a mio agio».

Leggi anche
Violenza di genere
di Chiara Manetti 5 min lettura
Violenza di genere
di Mariangela Di Marco 2 min lettura