Diritti

Diritto all’uguaglianza: cosa conferma la situazione keniota

In Kenya (così come in Italia) tra il dire e il fare, il gender pay gap prova che c’è di mezzo un mare
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3 settembre 2023 Aggiornato alle 06:30

Quando è sorta la Costituzione italiana, uno dei dibattiti più accesi tra i padri costituenti avvenne sull’articolo 3 che enuncia il diritto di eguaglianza: forte fu il contrasto tra due visioni del mondo, da un lato, il pensiero liberale e, dall’altro, il pensiero socialista e comunista.

Il compromesso raggiunto è ben esplicitato nel testo dell’articolo, dove il primo comma proclama l’eguaglianza davanti alla legge senza alcuna forma discriminazione, mentre, il secondo sancisce quale compito della Repubblica quello di rimuovere gli ostacoli, anche di natura economica e sociale, che limitano di fatto la libertà e l’uguaglianza tra i cittadini.

Il Kenya, stato indipendente a partire dal 1963, ha adottato anch’esso la sua Costituzione, rinnovata nel 2010, che all’articolo 27 stabilisce il principio di uguaglianza in modo non dissimile dal nostro articolo 3, primo comma, e impone la parità di trattamento e di opportunità tra uomini e donne anche nella sfera economica e sociale, che include – a detta dei commentatori – anche il mondo del lavoro.

Analizzando però i dati resi noti dal Kenya National Bureau of Statistics circa le differenze retributive tra uomini e donne, si nota una differenza a scapito delle donne del 32%.

In Italia, le ultime rilevazioni indicano un 12,5%. Del resto, il tema è comune in Europa dove a maggio 2023 è stata adottata la Direttiva 2023/970, appositamente volta a contrastare in maniera più efficace il fenomeno delle differenze retributive di genere.

Di questi giorni è poi lo scalpore sollevato dal Sustainability report, pubblicato da Equity Bank (società quotata operante anche in questo stato) in base alla normativa keniana sulla pubblicazione delle informazioni non finanziarie, dal quale risulta che il gender pay gap nel Paese africano giunge al 52%, con un rapporto di uno a due a favore degli uomini.

La banca, dal canto suo, fa notare che spesso le rilevazioni dei dati relativi alle retribuzioni non sono significative, dal momento che non terrebbero nel debito conto l’istruzione scolastica, la produttività, e l’esperienza dei dipendenti che, ove simili, condurrebbero ad analoghi salari.

Il report ha comunque riacceso il dibattito sul tema sui giornali e i social keniani.

Dalle varie voci sollevate emerge, sostanzialmente, che le donne siano penalizzate dalla maternità (del resto lo stesso studio della banca summenzionata assume quale parametro quello della produttività ed è noto che spesso, in modo apodittico, si pensa che la maternità non consenta un’adeguata produttività).

Fin qui nulla di nuovo sotto il sole, le considerazioni non sono diverse da quelle dibattute in Italia: dove, da un lato, pretendiamo tutti la pensione il prima possibile e, dall’altro, ostacoliamo la natalità (che assicura, tra l’altro, la sostenibilità del sistema pensionistico come ci sta ricordando il Ministro Giorgetti in questi giorni), a prescindere dalle varie iniziative intraprese da diversi governi, tanto strombazzate quanto poi inefficaci.

Non solo, quel che appare nei dibattiti di questi giorni in Kenya è che, nonostante le tutele normative, spesso la maternità è causa di perdita del lavoro, non tanto attraverso il licenziamento, ma attraverso la più subdola modalità del mancato rinnovo dei contratti a termine che costituiscono la buona maggioranza dei contratti di lavoro.

Un tale trattamento per la maternità fa ancora più impressione se si pensa che nella cultura di molti popoli africani, a partire dal vicino Congo, la generazione della prole diventa elemento di onorabilità per cui può capitare di essere chiamati “papa” o “mama” da altre persone quale forma di elogio per avere generato o, per assimilazione di concetti, perché si ricoprono cariche pubbliche importanti. In tal senso, più di un conoscente africano mi chiama spesso “papà Mario” per avere avuto io dei figli, anche se la differenza di età con chi mi chiama così è spesso inferiore ai dieci anni.

Quali lezioni trarre dunque dal Kenya?

La prima, senz’altro, è la riprova che tutto il mondo è paese, visto che in Italia le donne subiscono anch’esse una marcata disparità retributiva nel settore privato e non sono certo agevolate nella maternità.

La seconda, che vorrei tanto fosse ben praticata dai politici nostrani, è che al di là delle petizioni di principio (in entrambe le nazioni tutti hanno pari diritti senza discriminazioni in base alle rispettive costituzioni), il primo dovere di uno stato è quello di fare rispettare le leggi a partire da quella sulla parità salariale. Penso in questo momento ai tanti contratti di lavoro fantasma con i quali da noi i lavoratori sono assunti per poche ore e poi costretti a lavorare in nero per il doppio o il triplo delle stesse (e il mio pensiero corre anche al salario dignitoso e agli strumenti per renderlo effettivamente applicato semmai sarà adottato).

La terza e ultima considerazione che esprimo in questa sede, ma ve ne sono certamente altre che si potrebbero riportare, è che il progresso non sempre conduce al meglio, almeno non in maniera lineare: in un Kenya che adotta sempre nuove riforme per migliorare lo status dei propri cittadini, fa impressione che vi sia un gender pay gap così alto, più marcato rispetto alle statistiche riportate dagli enti preposti e altresì in una società quotata che è obbligata a rendere pubblici tali dati.

Il timore è quindi che le statistiche ufficiali siano più generose dei dati reali.

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