Diritti

Non c’è nulla che odiamo più delle persone povere

Il perché ce lo ricorda la serie Game of Thrones: “I poveri ci disgustano perché siamo noi, privati ​​delle nostre illusioni. Ci mostrano come saremmo senza i nostri bei vestiti. Come saremmo senza profumo”
Credit: ANSA
Ella Marciello
Ella Marciello direttrice comunicazione
Tempo di lettura 7 min lettura
11 agosto 2023 Aggiornato alle 06:30

Secondo il report Istat 2022, in Italia poco meno di un quarto della popolazione (24,4%) è a rischio di povertà o esclusione sociale. E se i ricchi tutto sommato escono bene dai periodi di crisi aumentando le risorse a loro disposizione, in proporzione inversa anche i poveri fanno lo stesso.

Recentemente, ho assistito a diverse discussioni dal vivo e online rispetto al concetto di povertà, complice l’eliminazione del Reddito di cittadinanza per circa 169 000 persone.

Se sei tra coloro che non sono riusciti a trattenere un piccolo giubilo alla notizia, avvicinati: quello che scrivo è soprattutto per te.

I poveri non ci piacciono. Li allontaniamo. Ci provocano disgusto. E non perché siamo persone particolarmente abbiette. In una società dominata dalla disuguaglianza, la demonizzazione dei poveri non è casuale. È un mezzo conveniente per giustificare distribuzioni ingiuste di ricchezza e potere: per cementare l’idea che chi sta in fondo meriti il suo posto.

La notizia dell’eliminazione del Rdc ha scatenato le solite narrazioni e le ancor più solite reazioni. Ma non è stata un bomba all’improvviso.

Da anni (e intendo, almeno 30 nel nostro Paese) siamo abituati alla retorica dei “furbetti”: gente fannullona che campa a spese di chi invece si pacca la schiena.

Secondo esponenti politici e intellettuali, infatti, chi chiede misure di welfare e le ottiene, per lo Stato è un parassita.

Ad appoggiare questa narrazione ci sono i fulgidi esempi di coloro che hanno truffato il sistema. Chiariamoci, queste persone esistono ma non sono né sintomatiche delle misure a contrasto della povertà né il problema più incipiente. Perché invece di arginare la problematica, per esempio stringendo i controlli e rendendo “blindati” i processi di richiesta, si è scelto consapevolmente di demonizzare e disumanizzare una categoria incolpevole, accanendosi sistematicamente e con ferocia dalle pagine dei giornali, dai salotti televisivi, dando spazio di parola a questo o quell’imprenditore falsamente integerrimo.

Chi ha bisogno del supporto dello Stato è stato largamente dipinto come colpevole, scansafatiche, un privilegiato “da divano” e non stupisce nemmeno che le parole siano sempre le stesse per descrivere gli stessi concetti. Già il Presidente Reagan, alla fine degli anni 70 aveva utilizzato l’espressione welfare queen per indicare quelle donne povere con figli, per lo più afrodiscendenti, che ricevevano sussidi crescenti: una narrazione che ha preparato il terreno allo smantellamento dello stato sociale.

Nello stesso periodo, Margaret Thatcher riteneva che un generoso provvedimento collettivo per la disoccupazione e la malattia stesse indebolendo la spinta al lavoro della classe operaia.

Keith Joseph, suo stretto alleato, chiamava “Lo stato di Babbo Natale” le misure assistenzialiste adottate per l’allora middle class e riteneva che essa corresse il rischio di affidarsi sempre più non al proprio duro lavoro e alla propria parsimonia, ma all’azione collettiva attraverso sindacati e sussidi statali. Thatcher voleva ristabilire un quadro economico e legale e un ethos culturale che premiasse quelli che vedeva come i valori “vittoriani” o “borghesi” di parsimonia, fiducia in se stessi.

A casa nostra, vent’anni di Berlusconismo e dei suoi alleati politici ci hanno lasciato, tra le alte cose, una divisione sempre più netta tra coloro che “lavorano” e gli altri, dove gli altri sono tutte le persone che non hanno scelto la professione imprenditoriale: i dipendenti e quindi i privilegiati (di nuovo), quelli che non devono pensare a nulla e non rischiano.

La risultante di una retorica stratificata di questo tipo è il pensiero che le classi più povere siano legittimamente portatrici di uno stigma che è, di fatto, naturale.

Non riconoscersi nei fannulloni e nei “senza pensieri” fa perciò in modo che il confine tra classe lavoratrice e classe media (qualunque nuova definizione abbiano oggi questi due termini) non sia più percepita come fondante ed evidente, traghettando il conflitto contro chi sta più in basso.

In parole povere: il conflitto non si gioca più tra working e middle class, ma tra le due e i “parassiti”, ovvero chi in un sistema capitalistico non ce la fa. Un magma di classe non ben identificato, spogliato della propria coscienza politica che, invece di coalizzarsi contro chi detiene il potere economico lo fa contro chi quel potere non l’ha mai avuto né lo avrà mai.

Un capolavoro ideologico a cui non siamo arrivati oggi naturalmente, ma che ha come conseguenza una sempre maggiore intolleranza per i principi democratici. I poveri sono reietti, problematici, fautori del loro misero destino e in virtù di questo, innegabilmente colpevoli.

La colpa del dover fare affidamento sul welfare affonda le sue radici nella moralità borghese, in cui sostanzialmente la ricchezza è equiparata alla virtù: essere ricchi è un bene, è una questione di merito mentre essere poveri è un personale difetto morale.

La propaganda politica e il dibattito pubblico hanno avuto un ruolo cruciale nel consolidamento di questo tipo di pensiero, condizionando generazioni a credere che essere poveri sia una scelta e che non abbia nulla a che fare con le condizioni sociali ed economiche loro imposte e di cui lo Stato non si occupa come dovrebbe.

Mark Fisher descrive esattamente questa percezione ne Il realismo Capitalista: sappiamo che chi sta nel margine inferiore sta peggio degli altri, ma diamo anche per vero che saremo ricompensati se facciamo la nostra parte con fatica e impegno, spostandoci nei margini superiori. Questa percezione è particolarmente problematica se la applichiamo alla distribuzione di potere e carriere in Italia: un Paese in cui le risorse si spostano con gli assi ereditari, in cui chi sta al vertice è automaticamente competente e in cui il successo è misurato non solo economicamente ma dalla rete di appoggio (per lo più politica) che un individuo è in grado di guadagnarsi. E quel “guadagnarsi” non ha minimamente a che fare con le diverse possibilità di ognuno: è derivato, così come è derivata la ricchezza.

In questo contesto e con un ascensore sociale artritico e immobilizzato, non dovrebbe aver senso un astio così rabbioso contro chi letteralmente non riesce a mettere insieme il pranzo con la cena.

In Game of Thrones viene detta una frase che trovo molto vera:

I poveri ci disgustano perché siamo noi, privati ​​delle nostre illusioni. Ci mostrano come saremmo senza i nostri bei vestiti. Come saremmo senza profumo”.

Odiamo i poveri perché, a prescindere da quello che ci raccontiamo, sappiamo che potremmo essere loro se fossimo nati senza i privilegi che, benché siamo restii ad ammetterlo, possediamo.

Preferiremmo credere che la nostra condizione superiore sia dovuta a una superiore virtù, ma sappiamo tutti nel profondo che non ci siamo guadagnati nulla come diritto di nascita e tutto con la fortuna di nascere al di qua della soglia di povertà. Ma questo pensiero è terrificante e non digeribile e perciò lo polverizziamo, ricoprendolo di una patina morale: il fatto che guardiamo alle persone povere come responsabili della loro condizione è una conseguenza di come guardiamo noi stessi nello specchio.

Ci hanno insegnato che il livello di stabilità delle nostre vite e il numero che alla fine dell’anno inseriamo nella dichiarazione dei redditi sia il risultato di quanto ci siamo impegnati.

Per lo stesso motivo invidiamo chi ha più di noi e al contempo ci sentiamo inferiori, lasciando da parte tutte le dinamiche di classe, di ostacoli e di distribuzione delle ricchezze che darebbero complessità alla prospettiva che stiamo cercando di valutare.

Eppure, come esseri umani, non ci piace sentirci inferiori per troppo tempo: invece di comprendere da dove derivi questa sensazione, riteniamo più semplice imputarla a qualcun altro che ci sta impendendo di essere dove sono coloro che invidiamo.

Le persone povere sono perfette per incanalare questa rabbia e questo senso di impotenza, perché apparentemente hanno trovato il modo per non fare la fatica che facciamo noi dentro il sistema capitalista stesso.

Odiamo così tanto il sistema perché ci sfibra, ci allontana da chi amiamo per dieci ore al giorno e ci fornisce appena il minimo per vivere, corredandolo spesso da un senso di impotenza verso il futuro e un bouquet variegato di problemi di salute mentale che derivano dal lavoro stesso. Eppure, è lo stesso sistema che ci immobilizza a trovare alternative.

Il capitale è un parassita astratto, un insaziabile vampiro e creatore di zombi; ma la carne viva che trasforma in lavoro morto è nostra, e gli zombi che crea siamo noi.”

Noi, che finiamo per mangiarci gli uni con gli altri.

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