Diritti

Mondiali di calcio femminile: scende in campo il divario retributivo

Le calciatrici impegnate nella competizione guadagnano nettamente meno rispetto ai colleghi maschi che si sono sfidati alcuni mesi fa in Qatar
Credit: EPA/DAN HIMBRECHTS
Alessia Ferri
Alessia Ferri giornalista
Tempo di lettura 4 min lettura
30 luglio 2023 Aggiornato alle 15:00

Le atlete impegnate nella Coppa del Mondo femminile iniziata da pochi giorni in Australia e Nuova Zelanda guadagnano in media solo 25 centesimi per ogni dollaro guadagnato dagli uomini ai Mondiali maschili dello scorso inverno.

A dirlo una nuova inchiesta della CNN sul gender pay gap calcistico.

Pur entrando nel merito della questione, il network non svela certo un fatto sconosciuto ma al contrario ben noto a tutti, a partire dalla Fifa che per questo, e probabilmente per migliorare un’immagine non sempre cristallina, sta provando a correre ai ripari.

A giugno ha infatti annunciato che, per la prima volta, circa 49 milioni di dollari dei 110 stanziati come premio da elargire a chi partecipa alla Coppa del Mondo femminile andranno direttamente alle giocatrici: almeno 30.000 a ognuna per la partecipazione e 270.000 a testa a quelle della squadra vincente. Il resto del piatto verrà diviso tra le federazioni che decideranno se assegnare alle atlete denaro extra.

Questa operazione conferma la volontà espressa dallo stesso presidente Gianni Infantino di arrivare all’uguaglianza nei pagamenti per i Mondiali maschili e femminili del 2026 e 2027. Un’impresa ambiziosa ma certamente non impossibile, soprattutto alla luce dei piccoli miglioramenti di oggi rispetto al 2019, quando secondo la Fifa e il sindacato mondiale dei calciatori e delle calciatrici Fifpro il compenso delle atlete era inferiore a otto centesimi per dollaro.

I Mondiali però non rappresentano che la punta dell’iceberg di un divario retributivo di genere che nel calcio è la costante, anche là dove quello femminile catalizza l’attenzione di migliaia di tifosi, come gli Stati Uniti. Nel 2022 le calciatrici Usa hanno raggiunto lo storico accordo che prevede la parità salariale ma nonostante ciò la stella Megan Rapinoe tra ingaggi e sponsor ha guadagnato lo scorso anno 5,7 milioni di dollari. Niente male, certo, ma nettamente meno di quello che può essere considerato il suo corrispettivo maschile, Cristiano Ronaldo, che si è messo in tasca 136 milioni di dollari.

La retribuzione delle calciatrici è composta da molti elementi diversi, tra i quali l’appeal sul pubblico, gli introiti economici forniti da tv e sponsor e lo status di professioniste, che investe solo una minima parte di loro, lasciando quasi tutte le atlete impegnate al Mondiale nel dilettantismo. Questo mix determina un divario nel divario, con nazioni come la Francia che, pur non applicando la parità di genere assicurano alle atlete cifre importanti che si aggirano intorno ai 250.000 dollari l’anno, e altre che non riescono a superare i 600 dollari, senza molto spesso arrivare nemmeno a quelli.

Tutti questi fattori che generano un paradosso incredibile: giocatrici impegnate nella vetrina più importante del mondo, costrette ad avere un doppio lavoro per vivere e a prendersi le ferie da esso per poter partire per Australia.

Il sindacato ha svolto un sondaggio tra le partecipanti alla competizione, scoprendo che due terzi ha dovuto prendere un congedo non retribuito da un altro lavoro già i mesi scorsi per giocare nei tornei di qualificazione e quasi un terzo non è stato pagato dalle proprie nazionali negli ultimi 18 mesi. Come affermato in una lettera del Fifpro rivolta a Infantino, a risentirne è anche lo spettacolo finale perché il fatto che “molte giocatrici sono arrivate al torneo come dilettanti o semiprofessioniste mina la loro preparazione e, a sua volta, la qualità del calcio che vediamo in campo”.

Questo aspetto tocca direttamente anche le Azzurre della nazionale italiana, anch’esse impegnate nella Coppa del Mondo, che solo un anno fa sono state riconosciute ufficialmente come professioniste.

Uno squilibrio di status che, inevitabilmente, si ripercuote su quello monetario, a sua volta determinato da una questione onnipresente quando si parla di lavoro femminili: il sessismo.

Il calcio è infatti da sempre considerato uno sport da maschi, al quale le femmine non dovrebbero nemmeno avvicinarsi o, al massimo, farlo per hobby o poco più.

“Abbastanza inadatto alle donne”, come recitava nel 1921 un verbale della Federcalcio inglese che ha vietato loro di giocare nei club fino al 1971, succedendo di un anno la Federcalcio francese che ha riconosciuto il calcio femminile solo nel 1970 e la Royal Belgium Federcalcio un anno dopo.

Inoltre, ancora oggi la maggior parte dei responsabili delle decisioni nel calcio continuano a essere prese da uomini: il comitato esecutivo della Uefa ha 20 membri, 19 dei quali sono uomini, mentre il Consiglio della Fifa ha 37 membri, 30 dei quali uomini.

E quasi i tre quarti (74%) degli allenatori di tutti i campionati di calcio femminile sono ancora uomini, con nessuna donna nelle prime posizioni in Germania, Islanda, Paesi Bassi e Norvegia.

La soluzione? Più donne, più donne ovunque, anche sul rettangolo verde di gioco.

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