Culture

Di foto tutte uguali e nessuna emozione

Immagini delle vacanze in serie, quasi sovrapponibili, si rincorrono sui social. Viene da chiedersi se possano considerarsi vere foto e se parlino davvero di ricordi
Credit: Sebastien Gabriel
Tempo di lettura 6 min lettura
26 agosto 2023 Aggiornato alle 06:30

Aspettiamo, l’alba sorgerà a breve. La sommità della roccia è scoscesa, battuta dal vento che ci schiaffeggia ora il viso, ora la nuca, ora il fianco.

Si volta e cambia direzione, come le teste delle persone intorno a noi, a ogni nuovo arrivo.

C’è della tensione, si nota. Non appena qualcuno cambia lato o si allontana incuriosito da uno scorcio di paesaggio, tutti fremono. C’è chi si alza e rincorre la curiosità altrui, per poi ritornare sui suoi passi, scuotendo il capo in direzione del gruppo. «Non era niente» dice un signore francese.

“Niente” poteva essere lo specchio di un lago che attendeva di riflettere il sole. Ma c’è un motivo se vale “niente” su questa roccia orlata di turisti, manco fossero una coroncina di fiori. Il turismo ha codici e segue rituali scanditi da un tempo preciso.

In questo luogo, ci sono la prima vista da scorgere, l’alba da guardare, poi un seconda veduta e infine una terza. Chi le inverte è perduto.

Dunque, nell’attesa sale la tensione e cominciano i click. Metaforici ovviamente, mutati perché digitali. Pressioni di pollici, scatti, un nuovo tentativo. Le pose, di tre quarti, con il sole nascente, la gamba tesa, non quella l’altra, il marchio della maglietta in vista, sguardo sognante, sorriso sbilenco, no meglio un sorriso aperto, a tutti denti. Li potrei contare anche da qui.

A questo punto arrivano sempre i professionisti delle foto di viaggio. Si riconoscono perché si muovono in coppia o con un piccolo entourage bardato di attrezzatura fotografica. Sono lei e lui, di solito.

Lei veste una gonna ampia, gialla o rosata. Lui pantaloncini sopra al ginocchio e camicia bianca, con almeno due bottoni aperti. Se ha lavorato sugli addominali, allora tutti i bottoni vengono liberati.

Piantano il cavalletto per l’iPhone o chiedono a una delle guide di tenere il telefono. Dico tenere, perché, manco fossero gorillapod lui ne modula le braccia, snoda i polsi, sposta i fianchi.

Cominciano le pose. Lei sola, gonna al vento. Poi entra in scena lui, guarda con fare sornione in camera, lei osserva l’infinito. La prende per mano, si guardano, si avvicinano, un bacio con il sole appena posato sulla cresta, morbido come un tuorlo.

Stacco, è il momento della posa fiducia. Lei si allontana sul ciglio scosceso. La superficie qui è tonda, e precipita degradando dolcemente. C’è un punto di non ritorno. Lui dice «ancora un po’» con l’accento svolazzante dell’Australia. Lei chiede se va bene lì, e scende ancora un po’.

È il momento, lui tende la mano e lei la prende. Lo guarda, si fida. Una foto. Più giù. Un’altra. Sporgiti, così sembra che io ti stia salvando. La terza. Dai perfetta rifacc…

Lei o lui mancano la presa. Lei vola, una nuvola di tessuto giallo e capelli al vento. Un’ultima posa aggraziata.

Scherzo, non è morto nessuno. Ma avrebbero potuto. Anzi, ogni anno muoiono circa 43 persone per scattare una foto. Per esistere in una foto.

Le guide richiamano, dicono di no, che è pericoloso. Lei e lui si ricompongono e controllano gli scatti. Nel mentre il sole sorge.

Quando si allontanano giungono gli imitatori. Pionieri del secondo tentativo. Stesse pose che hanno visto, qualcuno osa persino l’ultima. E poi via, tutti giù per il sentiero costellato di nidi di vespa.

Questa mattina è un caso solito, una prassi nota. Di fronte a qualunque monumento, evento o paesaggio ci sono pose e inquadrature da azzeccare. Le varianti non mancano, l’originalità è la benvenuta. Purché si porti a casa, pardon, sul feed la foto.

Monumenti e templi, animali e vedute mozzafiato sono solo fondali in una galleria di ricordi che si rincorre tra quelle degli smartphone.

Ma sono davvero ricordi? Foto?

Concretamente sono foto, ovviamente, ma allo stesso tempo non lo sono. Non fermano un attimo e non raccontano più una storia, piuttosto un’angolatura standard di un’interpretazione. Non sono foto di chi le scatta, ma la copia della copia della foto di qualcun altro. Non sono nemmeno ricordi. Perché cosa si ricorda?

Il cambio d’abito prima della posa, la fatica, la gioia della riuscita e poi, diciamolo, l’euforia della promessa di like. Certo, c’è pur sempre l’alba su Sigiriya sullo sfondo. E quindi ce n’è traccia, una pennellata nella mente. Ma ciò che si fissa in camera è il ricordo di una posa non di un momento reale. Una pantomima di memoria.

Si perde qualcosa, un frammento fondamentale, l’unicità di un momento che non può tornare. Anzi, si invertono le logiche. Incastrato in luoghi diversi torna sempre e solo quel rito, quella serie di movimenti necessari a produrre un’immagine, a consumare luoghi e sacralità come oggetti di una scena studiata a tavolino.

Ne risultano foto tutte uguali, ma anche qualcosa di peggio. A Kandy (Sri Lanka), è custodito il dente del Buddha. Con somma desolazione di molti avventori occidentali, non si può vedere. Nemmeno pagando. Alle 18.30, però, inizia una cerimonia, ed è quello il momento in cui il tempio si riempie di visitatori non credenti. Osservano i tamburi, le mani giunte, le pance dei suonatori fasciate in stole rosse. C’è chi porta i voti floreali senza nemmeno sapere dove posarli e che farsene. A parte una foto una volta trovato l’altare.

Suoni, ritmi, gesti che hanno un valore sacro diventano il contenuto di un video o una foto.

Tutti i fedeli sono acquisiti nello sguardo dell’inquadratura. Sono presi e usati senza che nessuno chieda loro il consenso.

Il diritto all’immagine, alla privacy di una preghiera, non è garantito. Non quando di mezzo c’è l’illusione di una foto alla Steve McCurry. Imitazione, di nuovo non ci sono la storia e l’intento. Sono immagini fredde.

Al tempio, chi ha la guida passa avanti ai fedeli. Vedo perciò una signora con i figli, scattare una foto ai bambini che guardano con noia - sono bambini dopotutto - i suonatori di tamburi. Deve aver fatto la sim locale, perché nemmeno il tempo di notare la foto che la colgo già su Instagram.

Scrive una caption sulla sensibilità dei figli in un luogo di culto. #blessed.

Il più piccolo di loro si volta, mano nella mano con la sorella, e chiede se ora possono andare. La madre dice sì, fa cenno alla guida, recupera il marito e se ne va.

Seguono altre foto di bambini occidentali frastornati dal bisogno dei genitori di mostrare le virtù che non hanno. e infine, giunge la composizione finale. Entra a spalle scoperte, si ferma disinvolta di fronte alla statua di Buddha e appronta una posa di yoga.

Scatto anche io. È vietato, considerato offensivo. Sorriso e uscita dalla porta centrale.

Sarà su internet a breve, piano editoriale permettendo, a indicare la via ad altri turisti in cerca di memoria che si ritroveranno a fine viaggio con un carosello di pose da sogno e un Paese che in realtà, non hanno nemmeno guardato.

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