Diritti

G8: 22 anni dall’Assalto alla Diaz

Ripercorriamo uno degli episodi più bui di quei giorni del luglio 2001. Quando la tortura in Italia non era ancora un reato
Corteo della disobbedienza civile con scudi di plastica al G8 di Genova
Corteo della disobbedienza civile con scudi di plastica al G8 di Genova Credit: Ares Ferrari
Alessia Ferri
Alessia Ferri giornalista
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21 luglio 2023 Aggiornato alle 07:00

Molti sostengono che le piazze italiane abbiano iniziato a svuotarsi di manifestanti dopo i fatti del G8 di Genova del 2001, che le proteste pacifiche e le rivendicazioni sociali che oggi viaggiano per lo più sui social, lasciando i luoghi fisici vuoti, non siano solo figlie dei tempi ma di quel preciso evento. Perché la gente da quel momento ha iniziato ad avere paura e ha iniziato a pensare che, forse, non ne valesse più tanto la pena.

Se i 2 avvenimenti siano davvero uniti da un meccanismo di causa effetto è impossibile saperlo, ma di certo quello che è successo nel capoluogo ligure oltre 20 anni fa ha cambiato per sempre la storia di una parte di Paese e la visione del mondo di molte persone, soprattutto quelle che ai tempi avevano circa 20 anni, ma non solo. Per questo, nei giorni in cui ricorre l’anniversario, vale la pena ricordare ciò che accadde.

Dal 19 luglio a Genova si susseguirono incontri alla presenza dei leader delle più grandi potenze economiche mondiali, mentre fuori dai palazzi cortei pacifici di attivisti e privati cittadini manifestavano contro il modello di sviluppo economico globalizzato che il summit proponeva.

In diversi momenti fu il caos, soprattutto a causa dell’infiltrazione di estremisti e violenti appartenenti ai black block, ma a pesare più di tutto su quei giorni, insieme all’uccisione di Carlo Giuliani, fu l’irruzione alla scuola Diaz, avvenuta nella notte tra il 20 e il 21 luglio.

Il complesso scolastico era stato adibito a centro media del Genoa Social Forum (un movimento che riuniva i manifestanti) e a dormitorio per giornalisti, attivisti e persone comuni. Era tranquilla quella sera. I più già dormivano ma c’era anche chi scriveva al pc, chi leggeva un libro e chi semplicemente chiacchierava con il vicino di sacco a pelo, fino a quando il frastuono di una porta sfondata, poco dopo la mezzanotte, squarciò il velo di silenzio dando il via a quella che Amnesty International definì “la più grande sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la Seconda Guerra Mondiale”.

Oltre 300 agenti della squadra mobile e dei Carabinieri fecero irruzione in assetto antisommossa, distruggendo tutto ciò che si trovarono davanti. Banchi, porte, armadi, ma soprattutto corpi, quelli delle persone presenti che, inermi, subirono una mattanza senza alibi. Nel sanguinoso pestaggio rimasero ferite 82 persone, 63 furono portate in ospedale, 3 in prognosi riservata e 1 in coma. 93 gli attivisti fermati, tutti sanguinanti e costretti a uscire da quelle aule in barella.

Durante la conferenza stampa del giorno seguente, i dirigenti della polizia provarono a sostenere che gli ospiti della scuola fossero già feriti al momento del loro ingresso e che nello stabile fossero state ritrovate molotov e armi. Le indagini però attestarono la falsità di entrambe le dichiarazioni, così come della presenza, anch’essa millantata, di alcuni black block.

Permettere alle forze dell’ordine di recuperare un’immagine un po’ appannata sembra invece essere stata la vera motivazione della spedizione, come ammesso da alcuni vertici delle forze dell’ordine durante il processo che, alla fine, ha portato alla condanna di 25 tra dirigenti e funzionari di polizia. I reati spaziano da falso ideologico a introduzione di bombe molotov nella scuola e violazione della legge sulle armi, fino a lesioni e lesioni aggravate in concorso.

Gli esecutori materiali di quella che l’ex vicequestore aggiunto del primo Reparto Mobile di Roma Michelangelo Fournier definì una «macelleria messicana» non furono individuati e tutti i procedimenti per lesioni a carico delle Forze dell’Ordine furono archiviati, soprattutto perché il nostro Paese, a differenza di molti altri in Europa e nel mondo, non dota, nemmeno oggi, le divise e i caschi delle Forze dell’Ordine di codici identificativi.

Un altro grande assente dell’epoca era il reato di tortura, che avrebbe probabilmente permesso l’incriminazione di molte più persone ma che in Italia è stato introdotto solo nel 2017, a fatica e dopo moltissime pressioni da parte dell’Europa. La più grande proprio collegata alla Diaz.

Nell’aprile del 2015, infatti, la Corte Europea per i diritti dell’uomo ha condannato il nostro Paese proprio per i fatti del G8 di Genova, e in particolare per quanto successo nella scuola, dove secondo la Corte le azioni della polizia ebbero finalità punitive e tutte le caratteristiche per venire classificate come tortura.

Sono passati 22 anni dai fatti di quella notte e da quelli che ne seguirono, come le perquisizioni alla caserma di Bolzaneto, dove le violenze e le torture, soprattutto nei confronti delle donne, portarono ad altro orrore e ad altre condanne. Oggi c’è chi attorno reato di tortura ventila l’ipotesi di fare un passo indietro e chi prova ad annacquare il ricordo di quanto accaduto.

Per evitare che la storia si ripeta però l’unica via è ricordare e, come sottolinea una frase trovata scritta con il sangue su un muro della scuola, divenuta il sottotitolo del film Diaz di Daniele Vicari del 2012: Don’t clean up this blood.

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