Diritti

Come racconti la violenza dice molto di che persona sei

I media hanno una grande responsabilità nel narrare le vicende relative alla violenza maschile sulle donne e agli abusi, ma spesso scelgono modi sbagliati perpetuando quella nota come cultura dello stupro
Ella Marciello
Ella Marciello direttrice comunicazione
Tempo di lettura 8 min lettura
15 luglio 2023 Aggiornato alle 06:30

I giornali, i social media, i programmi televisivi, i film, le pubblicità, i grandi eventi, sono strumenti potenti per stabilire tendenze culturali, norme sociali e parametri di riferimento dello stile di vita. Queste norme includono segnali sottili (o meno sottili) su come certe persone dovrebbero apparire, agire, cosa dovrebbero indossare e come dovrebbero vivere. Tutto ciò non solo crea cambiamenti nella cultura materiale (stili, tendenze ed estetica), ma anche dentro di noi, tra di noi e all’interno della stessa comunità. Cambia il modo in cui vediamo noi stessi, gli altri, come gli altri ci vedono e come ci sentiamo autorizzati a trattare le altre persone.

Poiché il pubblico si affida ai media per conoscere e comprendere ciò che succede - sia vicino che lontano nel tempo e nello spazio - il compito di chi fa informazione rimane cruciale e diventa fondamentale soprattutto nel fornire un racconto equo ed etico rispetto al tema della violenza, perché attraverso di esso le persone apprendono norme culturali e sociali, comportamenti accettabili e il proprio ruolo all’interno dell’impianto societario. I media, in questo senso, giocano un ruolo critico nel presentare e rafforzare idee e comportamenti che spingono all’imitazione.

Questo affidarsi consolida in chi fa informazione un enorme potere che si manifesta, a esempio, nella capacità dei media di contribuire a influenzare l’approvazione di una legge, sensibilizzare l’opinione pubblica su questioni disparate, fare o meno pressione politica e sociale.

Le storie di violenza maschile contro le donne che leggiamo (#metoo della comunicazione, caso Leonardo Larussa, stupro di capodanno a Firenze, femminicidi, etc) possono essere costruite con framing, ovvero cornici, di due tipi: episodiche o tematiche. Una cornice episodica si concentra su un incidente isolato, mentre una cornice tematica colloca l’incidente all’interno di un contesto più ampio, mettendone in luce implicazioni culturali, politiche, sociali.

I framing influenzano la percezione del pubblico su di chi sia la colpa e su cosa si debba fare per risolvere i problemi in termini individuali e comunitari: quelle episodiche di solito generano una maggiore simpatia da parte del pubblico perché le storie si concentrano su un singolo evento e, di fatto, provocano meno immedesimazione, liberano certi istinti più ventrali e portano a un sentimento condiviso di autoassoluzione.

Quelle tematiche, invece, tendono a offrire più dati statistici, che possono essere percepiti come clinici e meno emotivi (e quindi meno “cliccabili” in ottica di engagement).

Per questo, ogni volta che ci troviamo di fronte alla notizia di una violenza dovremmo preferire quei contenuti che sì, raccontano i fatti, ma che al contempo li inquadrino in modo tematico, affrontando una gamma di problemi interconnessi che possono generare soluzioni e che hanno a che fare con la società nel suo complesso, perché l’inquadramento episodico di molestie o violenze sessuali diminuisce la percezione che il problema sia, di fatto, sistemico.

La violenza sessuale è sistemica e culturale

Il sessismo sistemico o istituzionalizzato è la stereotipizzazione, il pregiudizio e la discriminazione nei confronti delle persone socializzate come donne sulla base del genere, che istituzionalmente avvantaggia gli uomini.

Le donne, quindi, si trovano ancora oggi in una condizione di inferiorità in materia di diritti, potere e opportunità e quando una intera struttura sociale è progettata per rafforzare l’idea che uno (o più generi) siano subordinati a un altro il risultato è la creazione di un disinteresse comunitario verso lo sfruttamento di quel o quei generi. Questa coscienza collettiva è nota come cultura dello stupro, un sistema di credenze condiviso dalla società che normalizza e giustifica l’abuso sessuale e la violenza contro le persone socializzate come donne (e contro la comunità Lgbtq+).

Per prosperare, la cultura dello stupro ha necessità di avere alleati pervasivi: l’oggettivazione e la sessualizzazione del corpo delle donne, l’uso di un linguaggio misogino, la colpevolizzazione delle vittime e la normalizzazione della violenza come forma di intrattenimento nei prodotti audiovisivi, nella musica, nel racconto pubblicitario e in quello giornalistico, che possono esacerbare i cosiddetti “miti dello stupro”: sostenere l’idea che le donne in qualche modo “lo chiedano” in base a come si vestono e rafforzare quella che un uomo predatore sia una fonte di invidia.

Tratti come l’aggressività sessuale tra gli uomini e la condiscendenza delle donne sono stati volutamente stereotipizzati, cosa che ci ha portato a credere che questi comportamenti non siano solo accettabili ma lodevoli.

La glamourizzazione della violenza

La romanticizzazione e glamourizzazione delle dinamiche violente nelle relazioni è incredibilmente dannosa per il modo in cui le donne vedono le relazioni stesse, in quanto normalizza l’idea che tratti come l’iperaggressività, l’incoscienza, la sottomissione non consensuale siano comportamenti sexy piuttosto che abusanti.

Un esempio nella moltitudine? La serie tv Game of Thrones presenta più scene di stupro. Personaggi come Khal Drogo stuprano e abusano regolarmente delle loro mogli. Tuttavia, questi personaggi sono in gran parte visti come bad boys che il pubblico ammira e di cui si innamora, piuttosto che per quello che sono in realtà: stupratori

Se i media dicono alle vittime che la violenza è sexy rendono molto più difficile sostenere il pensiero che esse saranno credute o prese sul serio, perché, indipendentemente dalla latitudine, semplificano, romanticizzano o banalizzano le molestie e la violenza sessuale, perpetuando i miti dello stupro nella società.

Il termine deriva dalla Rape Myth Acceptance Scale, sviluppata da Diana Payne, Kimberly Lonsway e Louise Fitzgerald nel 1999.

La perpetuazione dei miti sullo stupro da parte dei media può essere suddivisa in quattro categorie principali:

  1. La tendenza a sensazionalizzare lo stupro e a descrivere la violenza sessuale come qualcosa di eccezionale che si verifica raramente, anche se la violenza sessuale è relativamente comune.

  2. La tendenza a concentrarsi sulla violenza e le molestie sessuali da parte di leader uomini in posizioni di potere, in contrapposizione alle molestie sessuali in relazioni più paritarie, a esempio, tra colleghi. Ciò contribuisce all’idea che la violenza sia eccezionale.

  3. La descrizione di molestie e violenza come qualcosa di cui sono responsabili sia il carnefice che la vittima. Ciò rafforza il pensiero che una parte “meriti” di essere sottoposta a violenza perché in questo modo si giustifica l’idea che la vittima sia responsabile di ciò che ha fatto il carnefice.

  4. Quando una notizia si basa sulla spiegazione degli eventi da parte della vittima, l’autore del reato viene dipinto come un “mostro” e un emarginato della società. Questo accade più di frequente se l’autore è di origine straniera, anche se si tratta di un amico, conoscente, partner o ex partner della vittima.

Questa accettazione passa anche dalle parole che vengono usate, ovvero da un framing semantico. Scegliere consapevolmente di utilizzare espressioni come “chi accusa” al posto di “vittima” o l’uso di espressioni che fanno riferimento al sesso consensuale, come “accarezzare”, “sfiorare”, “sesso praticato”, “sesso orale”, “baciare\bacio” è dare volontariamente al racconto un’impronta inesatta, fuorviante, e normalizzante della violenza stessa.

Non esiste il “sesso non consensuale”, esiste solo lo stupro.

Non esistono “le minorenni”, esistono le bambine (perché è pacifico che un uomo adulto che violenta una persona con meno di 18 anni sia un pedofilo).

Non esistono “relazioni abusanti o tossiche”: le persone sono abusanti o tossiche, non le relazioni, che sono un concetto astratto difficilmente catalogabile in immagini concrete.

Così come non esiste il concetto di “violenza contro le donne”: esiste la violenza maschile contro le donne, che sono sistematicamente vittime di un agente - un uomo - in una dinamica di potere che è intrinsecamente legata al loro genere.

Per questo, anche l’uso della diatesi passiva o impersonale edulcora o allontana dalla percezione della gravità del fenomeno: “è stata aggredita sessualmente” o “la violenza è avvenuta” sono espressioni che non fanno riferimento all’agente della violenza. E indicano che, quasi per caso, una persona sia stata aggredita e che sia arrivata la violenza, come arriva il sole o un acquazzone improvviso ad agosto. Come se fosse, a tutti gli effetti, un mistero.

Invece, questo mistero è un’altra delle cose che non esistono. Le violenze e le aggressioni accadono sempre per mano di qualcuno.

Dobbiamo riportare la responsabilità all’interno delle storie che abbiamo il dovere di raccontare.

E dobbiamo farlo partendo dal concetto di colpa, che non è mai di chi subisce.

Anche se la maggior parte di chi fa informazione o prodotti di intrattenimento, nonostante i codici etici e la continua formazione in merito, pare dimenticarselo. E quando glielo si fa notare mette pure il broncio.

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