Diritti

Perché non sappiamo raccontare le donne?

Le parole sono importanti. Eppure, nel riportare la notizia del triplice omicidio avvenuto giovedì a Roma, il giornalismo ha mostrato che non sappiamo ancora trovare quelle giuste
Credit: Hakeem James Hausley/pexels
Costanza Giannelli
Costanza Giannelli giornalista
Tempo di lettura 4 min lettura
19 novembre 2022 Aggiornato alle 06:30

«Una piccola rettifica, perché pochi minuti fa la Questura ha rilasciato una nota che precisa che la terza vittima non è una transessuale ma una ehm donna».

Quella dell’inviato del TG2 Vincenzo Frenda era davvero una precisazione necessaria da fare in diretta? O meglio, dovremmo chiederci piuttosto: era necessario insistere per ore sul fatto che la terza vittima di quello che la maggioranza delle testate italiane sembra aver già ribattezzato il serial killer delle prostitute fosse un transessuale/una persona transessuale/una trans/una transessuale, solo per citare alcuni dei modi (nessuno dei quali corretto) con cui i giornalisti si sono riferiti a Martha Castano, la 65enne accoltellata a morte nel suo appartamento di via Durazzo a Roma?

Il 25 novembre si avvicina, con il suo carico di retorica e pinkwashing ma ancora - nonostante gli appelli, i codici deontologici e i workshop - come giornalistə non abbiamo imparato a raccontare le donne. In vita ma, soprattutto, nel momento della morte. Questo è particolarmente vero quando a essere vittime di atti violenti sono appartenenti a minoranze etniche (le due vittime di via Riboty, identificate genericamente solo come cinesi) o discriminate, come le prostitute o i membri della comunità Lgbtq+.

Domani si celebra il Transgender Day of Remembrance 2022, la giornata introdotta nel 1999 per commemorare le vittime dell’odio e del pregiudizio verso le persone transgender. E noi, ancora una volta, di fronte ai cadaveri delle vittime di un triplice omicidio consumato nel cuore di quella che ama definirsi la Roma bene, non possiamo che chiederci: perché non riusciamo nemmeno a utilizzare i termini corretti? Non è anche questa una violenza?

Le parole sono importanti, Nanni Moretti lo gridava già quasi 35 anni fa, eppure questa semplice verità non vuole (o non può?) entrarci in testa.

In questo caso, poi, la vera domanda è: perché questa insistenza sul fatto che una delle vittime fosse un/una persona transessuale prima ancora di averne la conferma? Cosa aggiungeva l’identità di genere alla cronaca degli eventi se non un dettaglio pruriginoso per solleticare il click degli utenti, in barba a ogni rispetto per una donna – fa differenza se biologicamente tale o meno? – uccisa brutalmente? Ci insegnano a rispettare il principio dell’essenzialità dell’informazione: questo dettaglio lo era, essenziale?

Io e la mia famiglia abitiamo letteralmente accanto al luogo del delitto; il palazzo in cui sono avvenuti gli omicidi è di fianco al mio e a dividere i due appartamenti credo ci sia solo la parete della mia cucina. Penso che chiunque abiti in questa via abbia sentito parlare almeno una volta delle fantomatiche case di appuntamenti diffuse tra un notaio e uno studio di avvocati e a due passi dal Tribunale di Piazzale Clodio.

Eppure in tantə si fingono scioccatə e si nascondono dietro al fatto che «questo è un quartiere tranquillo e rispettabile», come se la prostituzione fosse capace di sconvolgerci per la nostra reputazione macchiata più di un triplice omicidio consumato sul pianerottolo di fronte al nostro.

Derubricare il delitto come l’omicidio di tre escort ci aiuta solo a ridimensionarne la portata emotiva, come se il fatto di prostituirsi – per altro ancora da accertare e al momento comprovato solo da chiacchiere di condomini e residenti – fosse di per sé sufficiente per rendere in fondo meno inaspettato quello che potrebbe essere un femminicidio plurimo.

I dati ci dicono che in Italia muore una donna – per il solo fatto di essere donna – ogni 3 giorni. È meno grave se questa donna è una sex worker, o se nei suoi cromosomi c’è una Y?

In fondo, non è lo stesso risultato che otteniamo nascondendoci dietro la minaccia del serial killer? Se facciamo affidamento alla definizione standard, un omicida seriale è colui che “commette tre o più omicidi in località distinte, intervallati da un periodo di tempo, connotato da una fase di raffreddamento emozionale”.

È evidente che quello che ha colpito in Prati non possa al momento essere definito tale. Tirarlo in ballo in titoli e articoli ad alto livello di allarme, però, ha un duplice effetto: far impennare il numero di click ed evocare un mostro psicopatico e privo di empatia che colpisce le prostituite. Un modo molto efficace, di raffigurare e raffigurarci un omicida (che per quello che ne sappiamo potrebbe essere anche una donna, ma che tutti già immaginiamo al maschile) che somiglia molto meno a quelli che le statistiche ci dicono essere i primi responsabili della violenza contro le donne: comuni mariti, fidanzati, ex partner, familiari.

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