Culture

Libri Lgbtq+: quando si “usciva la sera”

Gay bar di Jeremy Atherton Lin ci porta in un viaggio personale e collettivo nei luoghi che hanno segnato la sua vita e quella della comunità arcobaleno. E che stanno scomparendo. Ma è vero che non servono più?
Costanza Giannelli
Costanza Giannelli giornalista
Tempo di lettura 5 min lettura
28 giugno 2023 Aggiornato alle 15:00

Quella della comunità Lgbtq+ è (anche) una storia di bar.

Uno, leggendario, lo celebriamo proprio oggi, perché 54 anni fa uno scalcinato locale gay gestito dalla mafia newyorkese ha visto l’alba della rivoluzione omosessuale. Una rivoluzione che da Christopher Street, nel cuore del Greenwich Village, ha travolto tutto l’Occidente.

Se lo Stonewall Inn è diventato un simbolo, però, non è l’unico locale, vero o immaginario, indissolubilmente legato a questa storia. Alcuni rappresentano pagine buie, come il Pulse di Orlando, in cui nella notte tra l’11 e il 12 giugno 2016 Omar Mateen ha ucciso 49 persone e ferite 58 armato di un fucile e di una pistola semiautomatici; altri capitoli pop, come il Babylon, che fa da sfondo all’iconica serie tv statunitense Queer as Folk.

Ma i gay bar sono stati più di un simbolo. Sono stati una casa per chi sentiva di non avere una casa, un luogo di aggregazione per quelli che “uscivano la notte” per cercare e cercarsi, drogarsi, ballare, ma anche per sperimentare un senso di appartenenza che mancava fuori.

“Per sete. Usciamo per provare il brivido della caccia. Vogliamo stare in una stanza piena di uccelli ognuno dei quali racchiude la forte possibilità di essere, per ricorrere a un acronimo queer vecchio stile, TBH, to be had, da possedere”. Sono stati un luogo in cui “l’identità si affermava e veniva messa in discussione allo stesso tempo”, in cui si dava un senso alla parola “gay”. Quanto, lo racconta Jeremy Atherton Lin in Gay Bar. Perché uscivamo la notte, uscito per Minimum fax (330 pagine, 19€).

Un racconto autobiografico ma anche un saggio di analisi politica e sociale, un documento storico e un caleidoscopio di aneddoti (come l’incursione della Principessa Diana al Royal Vauxhall Tavern assieme a Freddie Mercury, l’attrice Cleo Rocos e Kemmy Everett) che ci accompagna non solo nei locali che hanno segnato la vita dell’autore, ma in un universo di gay bar che hanno segnato e disegnato la storia di un’intera comunità e in cui il rapporto tra luogo e identità si è dipanato sull’onda dei beat della musica, del popper e del sesso che quelli che non uscivano definiscono “promiscuo”.

Quei locali in cui “fare sesso era come lavarsi i denti”, in cui in mezzo agli altri si definiva, o ridefiniva, se stessi: “Il punto è: entrando in un gay bar, divento più o meno gay? Il marchio della mia queerness sbiadisce in confronto ad altri più appariscenti di me? Si dissolve nella penombra, o si rivela, come sotto una luce ultravioletta? Dipende, in parte, dal posto. Ma, quale che sia il gay bar, quando ci entro la mia autoconsapevolezza e il mio benessere, se possibile, si amplificano parallelamente”.

Molti di quei locali non esistono più, almeno non come li racconta Lin. Molti hanno tirato giù le serrande (forse perché, profetizzano i giornali da decenni, “non servono più”) o si sono reinventati dandosi un volto più commerciale e “digeribile” per chi gay non è e quegli spazi ha “invaso”, dove “sono più le frociarole che i froci” e la queerness è stata elevata a patrimonio condiviso. Locali che non hanno resistito non solo all’onda d’urto del Covid ma, soprattutto, allo stile di vita “da gay pantofolaio” e alla domesticizzazione delle relazioni e alla cultura del nido familiare.

Quello che facciamo assieme a Lin è un viaggio che ci porta da Londra a Los Angeles fino a San Francisco, ma che ci catapulta anche in un continuo flusso tra passato e presente e che, tra le righe di un appassionante memoir erotico, ci guida non solo nei luoghi che di questa storia sono non sfondo ma protagonisti, ma anche in una ricostruzione dei momenti, anche quelli meno conosciuti, della liberazione omosessuale e della storia culturale della comunità Lgbtq+, oltre che del suo vocabolario e delle sue figure iconiche.

I primi Pride (quanti sanno che la prima sfilata nazionale dell’orgoglio gay ha avuto luogo a Los Angeles ben 3 anni prima dei Moti di Stonewall) e l’Aids, le dark room e le ballroom, il posing e tanto, tanto sesso, il passaggio da “Noi siamo ovunque” a “Noi siamo tutto”, l’imperativo “Fuori dai bar, per le strade”: tutto si unisce in uno sfavillante e vivissimo racconto.

E oggi? È vero che questi spazi non servono più? Che l’integrazione, Grindr e il cruising digitale hanno reso superati i gay bar, spazi di auto-segregazione? Forse è ancora presto per l’omelia funebre: “Finché gli esseri umani sopravviveranno, ci saranno spazi sociali, e questi conterranno gerarchie negoziate in termini di potere ed esclusione”.

O, per dirla con le parole che chiudono la serie Queer as Folk mentre i protagonisti ballano sulle ceneri del Babylon distrutto, “E il tumpa tumpa continua… Sarà sempre così, qualsiasi cosa accada, chiunque sia il presidente, come la nostra divina della disco Gloria Gaynor ci ha insegnato e cantato: We will survive”.

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