Diritti

Taiwan: il destino dell’eterna contesa

L’arcipelago nelle mire di Xi Jinping, che punta a riunificarlo alla Cina, a causa della sua posizione strategica ma non solo, è da sempre al centro di dispute territoriali e politiche
People walk in the street in New Taipei city, Taiwan, 31 May 2023
People walk in the street in New Taipei city, Taiwan, 31 May 2023 Credit: EPA/RITCHIE B. TONGO

I cittadini di Taiwan vorrebbero mantenere le cose esattamente come sono. Certo, la situazione non è ottimale, ma i rischi di un conflitto con la Repubblica Popolare Cinese li fanno propendere per l’attuale disequilibrio.

Abitare un Paese indipendente non riconosciuto non è un passeggiata, soprattutto se alla matrice dell’indipendenza fattiva negata risiede la volontà di assimilazione di un altro Stato 265 volte più grande, con una popolazione 56 volte superiore, e, soprattutto, riconosciuto come potenza regionale e mondiale.

Insomma, per l’arcipelago di Taiwan, formalmente Repubblica di Cina (ROC), la presenza della colossale Repubblica Popolare Cinese (PRC) è ingombrante e spaventosa e le sue mire riunificatrici non sembrano volersi arrestare. Anzi, l’escalation dello scorso agosto e l’inasprimento della tensione sullo stretto, ha dato prova della determinazione della Cina e di quella degli Usa.

Tra i due litiganti, il terzo paga lo scotto peggiore, perché per quanto la disputa riguardi l’indipendenza di Taiwan, l’arcipelago è diventato terreno di scontro tra Washington e Pechino, in lotta per l’egemonia. Insomma, Taiwan è stata declassata a comparsa nella sua stessa storia.

A 69 anni dalla prima crisi dello stretto di Taiwan la contesa è ancora aperta e le motivazioni degli attori coinvolti sono un complesso intrico di politica estera, politica interna e ideologia.

Le prime mire su Taiwan

Questo arcipelago dalla strategica posizione nel mar Cinese ha suscitato l’interesse di chiunque volesse mercanteggiare con l’Asia continentale e il Sud Est Asiatico. I primi a mettervi le mani furono i pirati mercanti del Fujan, una regione costiera meridionale della Cina, che utilizzarono le isole come rifugio. Nel XVII secolo gli olandesi colonizzarono l’arcipelago, seguiti dagli spagnoli nel ‘600, che però ebbero vita breve e furono espulsi dagli olandesi stessi.

Nel 1662 la dinastia Ming cacciò gli olandesi ma fu sconfitta, a sua volta, dalla dinastia Quing che mantenne potere e influenza sino al 1895 quando, a seguito della prima guerra sino-giapponese, Taiwan fu ceduto al Giappone.

Il 900 e il Kuomintang

Il Giappone mantenne il dominio su Taiwan ufficialmente sino alla resa incondizionata siglata dopo lo sgancio della seconda bomba atomica su Nagasaki. La dichiarazione del Cairo firmata da Churchill, Rooswelt e Chiang Kai- Shek prevedeva proprio la restituzione alla Cina di tutti i territori cinesi conquistati dal Giappone.

Nel mentre si era aperta una frattura tra il partito nazionalista cinese ufficialmente riconosciuto, il Kuomintang (KMT) e l’appena ventenne partito comunista fondato da Zhou Enlai, Mao Zedong e Deng Xiaoping. Il contrasto continentale vide Mao guidare la lunga marcia nel 1934-35 e conquistare la Manciuria a seguito del ritiro delle truppe sovietiche allo scoppiare della guerra fredda.

Nel 1949 la Cina settentrionale era quasi interamente controllata dal CCP e il Kuomintang di Chiang Kai Shek si ritirò a Taiwan.

Entrambi i partiti, KMT e CCP, reclamavano le isole in quanto parte integrante della Cina di cui entrambi si dichiaravano l’unico legittimo governo. Gli Stati Uniti non impiegarono molto a fornire il loro supporto a Taiwan, preoccupati dalla potenziale espansione del comunismo nel mondo. Questi primi sprazzi di alleanza e la difficoltà di un attacco anfibio spinsero Mao a posticipare la conquista dell’arcipelago.

Crisi nello stretto

La prima crisi dello stretto risale al 3 settembre 1954, quando la Cina bombardò Jinmen e Mazu dando inizio a otto mesi di tensione. L’attacco avvicinò definitivamente gli Stati Uniti, sotto l’amministrazione Eisenhower, e Taiwan, che siglarono un patto di mutua difesa a cui conseguì la risoluzione di Formosa che autorizzava gli Stati Uniti all’uso della forza per proteggere i confini di Taiwan.

Sotto la minaccia dell’atomica da parte degli Usa le tensioni si dissiparono fino al 1958, quando un secondo bombardamento attirò nuovamente l’attenzione di Washington che arrivò a dispiegare la settima flotta.

Nel mentre su Taiwan la lunga vita politica di Chiang Kai-Shek aveva aperto l’era del Terrore Bianco, un’agenda repressiva che portò alla violazione sistematica dei diritti umani e civili dei taiwanesi. Polizia segreta, esecuzioni sommarie e controllo massivo della popolazione accompagnarono la vita dei cittadini dal 1949.

Alla morte di Chiang Kai-Shek nel 1975 gli succedette il figlio, che allargò lievemente le maglie dell’oppressione consentendo ai taiwanesi di visitare i propri familiari sul continente.

Il supporto statunitense a Taiwan seguì le oscillazioni politiche, diradandosi via via che le interazioni commerciali della Cina cominciavano ad aprirsi. Nel 1971 il seggio di Tawain (Repubblica di Cina) all’Onu fu revocato in favore dell’ingresso e del riconoscimento della Repubblica Popolare Cinese.

Nel 1979 gli Usa riconobbero ufficialmente l’esistenza di una sola Cina, la PRC. La politica statunitense nei confronti di Taiwan prende il nome di “ambiguità strategica”, Washington mantiene il riconoscimento della politica “Una sola Cina” di Pechino (in luce del Taiwan consensus con cui nel 1992 ha ufficialmente disconosciuto la dichiarazione di indipendenza di Taiwan) ma al contempo continua ad avere contatti (militari e informali) con la ROC come stato indipendente.

Perché Taiwan è così rilevante per gli USA?

Taiwan ha una valenza geostrategica non indifferente, situato a circa 160 km dalla Cina continentale, l’arcipelago e il suo stretto sono un importante passaggio commerciale. Inoltre, si tratta del territorio sul quale si misura la contesa tra Cina e Usa come potenze egemoni. Il controllo del Pacifico, soprattutto in ottica delle recenti politiche internazionali e transregionali della Cina, è un elemento cruciale.

Gli Stati Uniti dimostrano la propria potenza su Taiwan, schierando la settima flotta e mostrando quanto un riconoscimento, anche informale e ambiguo, da parte di Washington, sia rilevante sullo scacchiere internazionale. Le mire americane, però, rispondono anche a istanze più contingenti. Nemmeno un anno fa gli Usa si ritiravano dall’Afghanistan sotto gli occhi di un mondo attonito nel vedere cosa avevano prodotto 20 anni di occupazione militare.

L’erosione dell’immagine degli Stati Uniti è stata rinforzata dall’attuale guerra in Ucraina. Putin, direttamente ostacolato da Washington, non ha ceduto alle minacce dell’amministrazione Biden, il quale si trova per le mani due eventi storici capaci di far evaporare la patina di potenza e invincibilità che dalla seconda guerra mondiale, con la nascita dello status quo derivato dallo sgancio delle due atomiche sul Giappone, caratterizza il Paese.

E sebbene le pressioni orientino Biden, entrambi questi eventi sono il prodotto residuo della politica trumpista che, con prese di posizioni stoiche e apertamente anticinesi, ha cercato di costituirsi come unica candidata per ripristinare l’egemonia statunitense. Ed è sulla scorta di queste pressioni, contingenti al Congresso e all’elettorato, che Biden ha potuto opporre una resistenza minima alla scelta di Pelosi di visitare Taiwan.

La quarta crisi dello stretto di Taiwan, infatti, è iniziata informalmente nell’aprile dello scorso anno, con l’annuncio della visita di Pelosi, avvenuta poi nell’agosto 2022. La Cina si è subito fatta sentire con dichiarazioni forti che minacciavano una solida presa di posizione in caso di visita della funzionaria (vista la sua alta carica) a Taipei.

Il presidente Biden si è trovato vincolato a mediare tra i pareri degli esperti, la scelta di Pelosi e il rischio di far sembrare la cancellazione della visita come una conferma della debolezza della sua amministrazione. Le dichiarazioni di Biden hanno costituito una controtendenza rispetto all’ambiguità storica. Probabilmente un tentativo nato dalla necessità di mediare tra le spinte dei repubblicani e il rischio di un’ulteriore escalation.

La Cina, in tutto questo, ha la sua porzione di interessi. Dal punto di vista di Pechino Taiwan è parte della Cinae qualunque interazione con Taiwan da parte di stati esteri viene riconosciuta come un’intromissione in una questione interna e quindi una violazione della sua sovranità. La strategia nei confronti di Taiwan si articola attorno alla creazione di un vuoto istituzionale realizzato disincentivando gli altri stati dall’intrattenere relazioni formali con l’arcipelago, pena l’esclusione dai rapporti con la Cina stessa. L’enormità del potere geopolitico ed economico cinese, aumentato esponenzialmente con la grande apertura e con le recenti iniziative infrastrutturali e commerciali, fanno il resto.

La nuova via della seta

In particolare, la Belt and Road Initiative, conosciuta anche come Obor (One Belt One Road) prevede la costruzione massiccia di infrastrutture e percorsi marittimi per collegare direttamente la Cina all’Asia, all’Africa e all’Europa. Per finanziare il progetto è preventivato un capitale compreso tra i 4 e gli 8 trilioni.

Spesa resa possibile grazie alla creazione dell’Aiib, Asian Infrastructure International Bank, un’alternativa ideata dalla Cina sia per porsi al centro di un colosso monetario, sia come reazione ai costanti rifiuti degli Usa di aumentare le sue quote nella Banca Mondiale. Questa centralizzazione del potere rispecchia la visione centralista e unitaria della Cina ed ha un forte impatto su Taiwan che, circondato da stati Asean (Associazione degli Stati del sud-est Asiatico), si ritrova fisicamente isolato e riconosciuto come Stato autonomo formalmente da una manciata di Paesi nel mondo.

Xi Jinping e le prospettive di lungo periodo

Per comprendere le mosse cinesi è opportuno modificare i canoni a cui siamo abituati e ragionare su politiche di lungo periodo con una forte continuità ideologica. La riunificazione, infatti, è uno dei tasselli centrali nella politica di Xi Jinping, coerente con la tradizione precedente.

La politica della “rejuvenation” si basa su un nazionalismo feroce, legato al passato imperiale della Cina ed è una reazione alla “grande umiliazione” e per questo uno degli obiettivi di lungo corso è proprio la riunificazione dei territori contesi anche a mezzo di invasione.

La strategia di Xi Jinping è imperniata su un forte personalismo e su pratiche di accentramento progressivo del potere. Nel XIX congresso del Partito Comunista Cinese il pensiero ideologico di Xi Jinping è entrato in Costituzione, prima di lui era successo solo con Mao Zedong e Deng Xiaoping. Anche le mosse di Xi jinping sono ragionate in funzione della sua immagine e del suo ruolo. Gli analisti di Washington, infatti, parlano di un attacco entro il 2027 perché le prospettive del partito e Xi Jinping sono orientate al grande anniversario del 2049, in cui saranno celebrati i 100 anni del partito Comunista Cinese.

La quarta crisi dello stretto di Taiwan

L’arrivo di Pelosi a Taiwan ha costituito il pretesto per mostrare quanto la potenza della People’s Liberation Army si sia ingigantito, se nel 1995 dalla Cina erano partiti appena 6 missili (con un lancio fallito) meno di un anno fa è stata in grado di lanciarne 16.

Oggi la Cina ha un budget per la spesa militare 20 volte superiore a quello di Taiwan. Le esercitazioni sono vere e proprie dimostrazioni di forza che hanno avuto la capacità di modificare subito le rotte commerciali da e per Taiwan. Isolare Taiwan dal suo potere economico, derivato in larga parte dall’esportazione di chip avanzati, le è essenziale per indebolirne la posizione. La Cina ha dimostrato di poter accerchiare e isolare l’arcipelago in poco tempo, e per un Paese come Taiwan che importa il 60% del cibo e il 98% dell’energia, significa essere immediatamente sotto assedio.

Uno scudo tecnologico

Il grosso vantaggio di Taiwan è derivato dall’essere il Paese leader nella produzione ed esportazione di semiconduttori destinati alla produzione di chip (grazie ad aziende come TSMC).

Taiwan produce il 67% dei semiconduttori nel mondo, seguito dalla Corea del Sud (18%) e poi dalla stessa Cina che, in caso di riannessione, potrebbe sommare al suo 9% di produzione il potere di settore dell’arcipelago. Un’eventuale invasione, o un più probabile assedio marittimo, però, causerebbe un blocco globale nelle catene di produzione, scatenando le reazioni di diversi Paesi.

I taiwanesi, dal canto loro, sebbene siano poco interpellati a riguardo, hanno una specifica volontà. Secondo le rilevazioni, si considerano cittadini di uno stato separato e sono contrari alla “One country two systems”, ma vista la minaccia di un’invasione da parte della Cina preferirebbero mantenere lo status quo attuale, quello che vede Pechino e Washington essere in accordo sull’essere in disaccordo sull’appartenenza di Taiwan.

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di Lucrezia Tiberio 3 min lettura