Culture

Vendere l’anima ad Amazon (e non solo)

Due libri-inchiesta denunciano nuove e vecchie forme di capitalismo. Uno digitale in mano a un potente algoritmo, l’altro tradizionale e colpevole di un incredibile ecocidio italiano
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11 giugno 2023 Aggiornato alle 08:00

Mangiamo carne ben sapendo che fa male e che l’industria dell’allevamento intensivo è disumana. Usiamo la plastica lasciando che uccida lentamente noi e l’ecosistema. Smanettiamo ore sui social per far lievitare like e regalare i nostri dati alle big tech. Ordiniamo un delivery pur sapendo che qualcuno pedala nello smog per una paga da fame. Ci ostiniamo a preferire l’aereo al treno, la macchina al tram, la moda low cost che produce montagne di rifiuti a un armadio meno fornito ma più etico.

Viviamo su discariche colme di veleni senza riuscire a cambiare il nostro destino, senza la forza di denunciare. E, non ultimo, compriamo in modo compulsivo online, fregandocene ma forse più probabilmente ignorando quanto quel tasto “acquista” produca una catena di reazioni economiche, sindacali, etiche non indifferenti.

Fare finta di niente, sapere ma tapparsi occhi e orecchie come i bambini quando non vogliono essere rimproverati, spostare il problema sempre più in là, alla prossima generazione: viviamo in una grande, unica e consapevole indifferenza verso ciò che sarà, bruciando i desideri del momento.

È questa la riflessione che si è portati a fare leggendo due saggi di denuncia che puntano il faro su mondi in apparenza diversi, ma connessi sotto molti aspetti.

Il magazzino. Lavoro e macchine ad Amazon di Alessandro Delfanti (Codice edizioni) indaga sulla catena di montaggio umana e robotica gestita da un implacabile algoritmo che ogni giorno riceve, stocca e consegna miliardi di pacchi non così necessari in tutto il mondo, con benefici soprattutto per il suo famoso proprietario Jeff Bezos (il valore della sua azienda supera il Pil del Canada).

Il mare colore veleno di Fabio Lo Verso (Fazi editore) è invece una coraggiosa, dettagliata e inquietante inchiesta su uno dei più grandi disastri ambientali del nostro Paese, quello del “quadrilatero della morte” tra Augusta e Siracusa, in Sicilia, sede del più grande polo petrolchimico italiano: 30 km di costa dove è stato sversato di tutto. Veleni come mercurio, piombo, arsenico, benzene hanno impestato l’aria, il terreno, le falde e il mare, dove sul fondale si sono accumulati 13 milioni di metri cubi di sedimenti nocivi, che equivalgono alla somma di tremila palazzi di 6 piani ciascuno.

Che cosa tiene insieme queste due realtà?

Da una parte, un sistema produttivo che da mezzo secolo fa scempio dell’ambiente e della salute delle persone in nome di un capitalismo industriale che doveva portare benessere al Sud, senza riuscirci. Dall’altra, la nuova forma di capitalismo digitale che trasforma i lavoratori in meri esecutori ai comandi di un algoritmo, un nuovo tipo di forza lavoro chiusa in megahub spersonalizzati già dal nome.

Il colosso italiano di Amazon nel Nord Italia, per esempio, si chiama MPX5 e ricorda la sigla dell’aeroporto di Malpensa non a caso: tutti i circa 300 magazzini della multinazionale di Bezos (con 1,5 milioni di dipendenti nel mondo) prendono il nome dallo scalo aereo più vicino, con ben poca fantasia.

Nell’hub in provincia di Piacenza, così come in quelli nel resto del Pianeta, si opera “in maniera ininterrotta, veloce, efficiente, altamente digitalizzata, con un tasso di turnover alto perché il magazzino scarta e rimpiazza la manodopera logorata dal ritmo che le viene imposto, ed è accolto con un certo favore dal management perché può regolare il volume della forza lavoro in base alla domanda di mercato sempre fluttuante” scrive Alessandro Delfanti.

Pensiamo alle nostre sbornie di regali natalizi o ai vari prime day, quando abbagliati dagli sconti non facciamo altro che ordinare, ordinare, ordinare…

Non ci sarebbe nulla di male, avvisa l’autore dell’inchiesta, se le implicazioni di questo shopaholism non si riflettessero su un una nuova forma di impiego che in alcune zone del mondo arruola soprattutto manodopera a basso costo, spesso femminile, minoritaria e già precaria, senza alzare i livelli medi di reddito delle zone dove ubica i suoi giganteschi magazzini.

Luoghi in cui il controllo sulla manodopera è ossessivo, ci si muove sempre con una pistola scanner perché ogni processo deve essere scansionato, tracciato e i flussi di merci e addetti sono decisi dai dati, che gli operai stessi producono.

Più a Sud, nel quadrilatero industriale Augusta, Priolo, Melilli, Siracusa che produce il 37% del Pil della regione Sicilia, lo scenario produttivo è di tipo industriale più classico, anche se il miraggio del posto fisso sembra solo un ricordo e proliferano i contratti a termine. «Degli oltre 26.000 impieghi negli anni Ottanta ne rimangono oggi 7.500 - spiega il giornalista Fabio Lo Verso. - Ma qui, i costi umani, ambientali, sanitari sono stati altissimi».

In soli 30 km la popolazione coesiste da oltre 50 anni con tre impianti di raffinazione petrolifera, tre centrali elettriche, un cementificio, due stabilimenti chimici, due fabbriche di gas industriali e decine di aziende di indotto. Lo scenario di devastazione è ben descritto da Lo Verso mentre attraversa questa zona sfruttata e devastata, e con lui ci caliamo in una catastrofe ecologica che è solo seconda al dramma della forte incidenza di tumori e malformazioni congenite nei neonati. Dati che sono di difficile raccolta perché la fabbrica “dà da mangiare” e il ricatto dell’occupazione è ancora il più grande deterrente alla denuncia e alle richieste di bonifica e di verità giudiziarie che si inseguono da decenni.

Fare finta, si diceva. Ignorare che c’è una parte del mondo che consuma inutilmente e un’altra che produce a condizioni insostenibili. Con una domanda che rimane aperta: quando ci accorgeremo che dentro quei pacchi con il sorriso sempre stampato in faccia ci stiamo mettendo un’altra deleteria nevrosi, più che una moderna necessità?

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