Diritti

L’odio online colpisce le giornaliste

Commenti misogini, minacce di stupro e morte: secondo il report ICFJ, sui social le donne che si occupano di giornalismo sono vittime di campagne di violenza orchestrate dalle autorità del loro Paese o da attori stranieri
Credit: Kristina Flour
Tempo di lettura 4 min lettura
14 marzo 2023 Aggiornato alle 21:00

Dallo studio dell’International Center for Journalists (Icfj) in collaborazione con Story Killers (progetto investigativo guidato da Forbidden Stories) emerge un dato preoccupante: i social sono spesso utilizzati come spazi per veicolare messaggi misogini, di odio e diffamatori contro le giornaliste. Spesso sono proprio loro, rispetto ai colleghi maschi, a essere oggetto di campagne di disinformazione digitale e commenti sessisti, il cui obiettivo è denigrare il loro lavoro e la loro persona.

Il report dell’Icfj ha pubblicato 2 casi studio che presentano le storie di Rana Ayyub e Ghada Oueiss, da anni vittime di attacchi online, molestie, minacce di omicidio e stupro. Per entrambe, secondo i ricercatori, esiste un rischio piuttosto alto che queste intimidazioni e molestie verbali si trasformino in violenze e aggressioni fisiche.

Rana Ayyub, giornalista investigativa e opinionista del Washington Post, può essere considerata una delle giornaliste indiane “più scomode” del Paese, a causa delle sue inchieste riguardo Narendra Modi (esponente del Bharatiya Janata Party, partito di destra nazionalista indù). Da anni Ayyub è vittima di campagne diffamatorie coordinate e di quella che il report definisce una “manovra da playbook”, ovvero una situazione dove Stati autoritari e figure politiche armano la legge contro le giornaliste insieme a campagne di violenza online mirate. Lo stesso studio dell’Icfj evidenzia la comparsa di commenti offensivi e persecutori nei confronti di Ayyub anche dopo pochi secondi dalla pubblicazione di un suo post.

Stupisce, tuttavia, come riporta un articolo del 2022 apparso nel Coalition For Women In Journalism, che in questi anni a esser censurati sono stati alcuni tweet della giornalista e non quelli diffamatori e molesti.

Per Ayyub, ma anche per tantissime altre sue colleghe, Twitter è il veicolo prescelto da odiatori e sessisti e per quanto il fenomeno sia stato già da tempo denunciato, attualmente le azioni contro i troll molestatori sono apparse insufficienti.

Non sono solo i social network a essere utilizzati come armi verso le giornaliste, ma anche gli spyware. Ghada Oueiss giornalista libanese di Al Jazeera Arabic, nel 2020 è stata oggetto di diffamazioni che l’accusavano di promiscuità e prostituzione. Attraverso lo spyware Pegasus sono state estrapolate delle immagini private dal suo cellulare, che successivamente sono state manipolate e distribuite sui social con false narrazioni.

Oueiss, scrive il report: «Viene regolarmente minacciata di stupro e morte, e calunniata come una prostituta»; e questo per il suo genere, l’età, la fede cristiana e i suoi reportage, specialmente quelli da Gaza e sulla primavera araba.

A Forbidden Stories Oueiss ha dichiarato: «Forse quello che hanno fatto a Khashoggi sarebbe successo anche me, perché, prima lo hanno attaccato sui social media, e poi lo hanno ucciso». Oueiss, era amica è stimava Khashoggi, e proprio lui, nel 2018, pochi mesi prima del suo omicidio, le aveva consigliato di bloccare e ignorare “l’esercito di mosche, ossia la rete di account Twitter automatizzati dell’Arabia Saudita, che prendeva di mira sia lei che Khashoggi. La giornalista, al contrario, rispose a questi attacchi tramite un articolo.

Dunque, esattamente come per il caso di Ayyub, queste campagne di odio sono state costruite da “attori di Stati stranieri” per screditare le giornaliste. In altri casi invece le giornaliste sono minacciate e provano a essere silenziate dalle autorità del loro stesso Paese, come, a esempio, sta accadendo in Iran. A confermarlo è Reporters Without Borders (RSF) che comunica che dall’inizio delle proteste sono state arrestate 16 giornaliste, il numero più alto in un periodo di cinque mesi nella storia della Repubblica islamica.

In un’intervista alla BBC, Yeganeh Rezaian, ricercatrice del Committee to Protect Journalists (CPJ), con sede a Washington, ha riferito: «Stiamo assistendo all’arresto di un numero insolito di giornaliste donne perché ciò che ha scatenato le proteste è stata la legge sull‘hijab obbligatorio e la morte di una giovane donna a causa della discriminazione di genere». In Iran le giornaliste sono perciò divenute un bersaglio del regime, non solo per il lavoro che fanno, ma anche in quanto donne.

La prima giornalista a essere incarcerata è stata Niloofar Hamedi, e non è un caso: fu la prima, infatti, a denunciare il caso di Jina Mahsa Amini. Il 22 settembre è stata arrestata e condannata per “propaganda antigovernativa e diffusione di notizie false”.

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