Diritti

Angeli e demoni di Victoria’s Secret

Il nuovo documentario Angels and Demons su Hulu ripercorre l’ascesa e la caduta del famoso brand di lingerie, tra misoginia, abusi e tossicità
Caterina Tarquini
Caterina Tarquini giornalista
Tempo di lettura 3 min lettura
19 luglio 2022 Aggiornato alle 21:00

Pare proprio che le case di produzione e le piattaforme streaming ci stiano prendendo gusto a svelare gli scandalosi retroscena dei marchi di moda, simbolo di un’epoca. Dopo il razzismo di Abercrombie&Fitch su Netflix, ecco un nuovo documentario che delizierà gli amanti del genere: Victoria’s Secrets: Angels and Demons.

Ancora una volta, una storia che racconta una rapida ascesa e una disastrosa caduta: il chiacchierato marchio di lingerie, che ha scalato le vette del successo con le sue inconfondibili passerelle. Un documentario targato Hulu e diviso in 3 puntate dirette da Matt Tyrnauer, autore di Valentino: The Last Emperor, incentrato sulla vita dello stilista.

La parabola del brand comincia tra gli anni ’90 e 2000, un decennio in cui Victoria’s Secret giunge rapidamente a dominare il mercato di biancheria intima. All’ondata di popolarità della casa di moda contribuirono soprattutto le celebri sfilate introdotte già a partire dal 1995 e il piccolo esercito di fedelissime modelle, considerate all’epoca le più richieste al mondo. Tra i nomi gettonatissimi spiccava infatti Naomi Campell, Adriana Lima, Gisele Bundchen e Heidi Klum e negli ultimi anni, prima che le sfilate venissero definitivamente cancellate, persino le sorelle Hadid.

L’altro fattore determinante era rappresentato dal fatto che il brand aveva cavalcato con un certo tempismo il cosiddetto “sexuality-as-empowerment feminism” che aveva vissuto i suoi anni d’oro con serie tv come “Sex and the City”.

Tra gli errori strategici compiuti, secondo la ricostruzione del documentario, ci sarebbe il lancio nella linea Junor, Pink: modelle appena ventenni che indossavano abiti erotici con tanto di caramelle e leccalecca. Persino il giovane rubacuori Justin Bieber, che all’epoca aveva 18 anni e aveva già accumulato due dischi di platino, è stato assunto per esibirsi in passerella, rafforzando l’appello per gli spettatori minorenni.

Intorno al 2010, poi, mentre il movimento Me Too otteneva i primi riconoscimenti, il brand calava nelle statistiche di gradimento e veniva accusato di misoginia, ambiente lavorativo tossico e non inclusivo. La vera natura del marchio, quella che si celava dietro il mito e le copertine patinate, era emerso pian piano tra le denunce di molestie sempre più numerose da parte delle modelle.

Il colpo di grazia era stato inferto dall’intimo legame d’amicizia tra Leslie Wexner e Jeffrey Epstein, allora indagato per traffico sessuale di minori. Un manipolo di leader maschi di Victoria’s Secret, tra cui Razek e il presidente ed ex CEO Les Wexner, proibivano qualsiasi attenzione alla maternità o all’abbigliamento modellante. «Perseguivamo una visione della donna irraggiungibile, secondo i gusti degli uomini», spiega nel documentario l’ex dirigente Sharleen Ernest.

Un anno dopo le dimissioni di Wexner, nel 2020, Victoria’s Secret ha annunciato il suo rebranding completo, come un nuovo “VS Collective” inclusivo guidato da donne come Megan Rapinoe, Eileen Gu e Paloma Elsesser. L’inizio di una inversione di tendenza?

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