Diritti

Come si certifica l’equità di genere nelle aziende?

A poco più di una settimana dall’approvazione della direttiva europea Women on Boards, abbiamo chiesto a Simona Scarpaleggia, board member di Edge Strategy, quali sono le misure per ridurre il gender gap sul luogo di lavoro
Simona Scarpaleggia, board member di Edge Strategy, che certifica l'equità di genere nelle aziende
Simona Scarpaleggia, board member di Edge Strategy, che certifica l'equità di genere nelle aziende Credit: Dal video: Full Speech: Simona Scarpaleggia at Democratic Design Day Lugano 2018
Chiara Manetti
Chiara Manetti giornalista
Tempo di lettura 6 min lettura
16 giugno 2022 Aggiornato alle 21:00

L’uguaglianza di genere sul posto di lavoro è un obiettivo sempre più ricercato. A fine marzo è stata istituita, in Italia, una cabina di regia interistituzionale per la parità di genere, e in questo senso il Pnrr– Piano nazionale di ripresa e resilienza – prevede investimenti mirati per raggiungerla.

All’inizio di giugno, quando si è riunita la plenaria europea, Parlamento, Consiglio e Commissione hanno raggiunto un accordo sulla direttiva Women on Boards, che ha l’obiettivo di aumentare il numero delle donne all’interno dei Consigli di amministrazione delle società quotate in borsa entro il 2026.

«Era ora che si concludesse questo dibattito, ma molti Stati, nel frattempo, si erano già mossi in modo indipendente in questi termini: per esempio la Norvegia, che ha inserito per prima al mondo le quote di genere nel 2008, oppure l’Italia, con la Legge 120-2011 Golfo-Mosca». A spiegarlo è Simona Scarpaleggia, board member della società svizzera Edge Strategy, da poco arrivata in Italia, che misura e certifica uguaglianza di genere, parità salariale e diversity nelle aziende.

«I Paesi scandinavi sono i più avanzati perché sono arrivati prima nelle misurazioni di determinati aspetti legati al tema, hanno una cultura del welfare che ha consentito un’apertura sia agli uomini che alle donne in termini di genitorialità e infine perché hanno usato in modo positivo tanti buoni esempi di donne in posizioni di responsabilità, sia in politica che in economia».

Anche se le quote di genere sono arrivate più di dieci anni fa nel nostro Paese, «l’Italia è ancora, purtroppo, uno dei fanalini di coda nell’equità di genere europea», sottolinea Scarpaleggia. «Se guardiamo al report sul divario di genere globale del World Economic Forum, l’Italia è al 63esimo posto, cosa che non fa molto onore a uno dei Paesi del G7: le donne non fanno parte della forza economica del Paese. È molto opportuno, quindi, che nel Pnrr si dia enfasi all’aumento dell’occupazione femminile, all’imprenditoria femminile e soprattutto alla certificazione, che è un modo per misurare e per dare credibilità».

Edge Strategy si occupa, attraverso il software Edge Strategy Assessment Tool, di «dare un’immagine piuttosto completa e attendibile di quale sia lo stato dell’organizzazione rispetto all’equità di genere». Perché la misurazione dà «una situazione oggettiva dell’azienda e la possibilità di fissare degli obiettivi realistici, specifici e quantitativamente misurabili successivamente, dando l’idea del progresso delle politiche adottate: è l’inizio di un percorso virtuoso che passa poi per la certificazione». Che si fa attraverso quattro pilastri, da considerare tutti insieme.

Due sono di carattere quantitativo, gli altri due di natura qualitativa: «Il primo è quello della rappresentanza di uomini e donne ai vari livelli dell’azienda. Il secondo pilastro è relativo all’equità salariale, ovvero se, a parità di occupazione, uomini e donne sono pagati nello stesso modo: lo facciamo in modo piuttosto scientifico, depurando il dato da elementi soggettivi».

Scarpaleggia spiega che la rappresentanza e l’equità salariale vanno analizzati insieme, perché se in un’azienda, per esempio, «uomini e donne che lavorano in un certo settore sono pagati allo stesso modo, ma non c’è neanche una donna nelle posizioni apicali, dal punto di vista formale si avrebbe una equità salariale comprovata, ma non certamente un’equità di genere».

E vanno affiancati agli altri due pilastri: le policy, le prassi che vengono applicate nell’organizzazione, e la cultura aziendale, ovvero l’esperienza percepita da parte dei collaboratori, che Edge misura attraverso un sondaggio volontario e anonimo, molto partecipato e utile a disegnare un quadro “interno” delle politiche aziendali adottate.

E attenzione a chiamarle “quote rosa”: «Il termine contiene già il pregiudizio che si debba dare un contentino alle donne, e sottintende che tanto ci saranno sempre gli uomini a risollevare la situazione. Ma lo scopo è quello di stabilire un meccanismo di salvaguardia del genere meno rappresentato, che oggi sono le donne, ma domani possono essere gli uomini; quindi, garantiamo che una rappresentanza congrua ci sia in un caso o nell’altro».

Ma come può, un’azienda, superare il test dell’equità di genere? «Prima di tutto ci deve essere un impegno dichiarato e consapevole, poi una misurazione delle politiche e dei risultati ottenuti, e infine la definizione di un piano di azione che vada a riempire i divari di genere esistenti in modo preciso e puntuale».

Scarpaleggia fa alcuni esempi: «Un primo passo può essere cambiare le policy, specificando che sono richieste delle “liste” bilanciate di candidati per l’assunzione o per la promozione, o evitare un linguaggio discriminatorio, o ancora mettere i piedi azioni a supporto delle famiglie, come il lavoro da remoto, che era un taboo fino a qualche anno fa». Dipende tutto dagli elementi di divario individuati in ciascuna organizzazione.

La certificazione “Edge” si concentra sull’equità di genere, ma “Edge Plus” calcola anche i livelli di intersezionalità all’interno delle aziende: «Oltre ai due grandi universi di uomini e donne, ci focalizziamo su 6 macrogruppi: l’etnia, l’età, la disabilità, l’orientamento sessuale, l’identità sessuale e la nazionalità. Perché ognuno di noi è espressione di diverse dimensioni della diversità e avendo presente questi elementi si ha la possibilità di includere tutti con molta più facilità».

La certificazione, provenendo da un ente indipendente e accreditato, conferisce «credibilità al processo e alle iniziative che verranno adottate. E poi c’è un altro elemento, quello degli investitori, che chiedono sempre più investimenti negli Esg, i parametri ambientali e di sostenibilità: qui la certificazione assume il ruolo di una prova della validità e dell’efficacia delle policy», spiega Scarpaleggia.

E a tutti coloro che sostengono che la ricerca dell’equità di genere aziendale mette da parte la meritocrazia, lei che cosa risponde? «Rispondo che è esattamente il contrario: sappiamo che in Italia ci sono moltissime donne laureate (sono poco più degli uomini) e qualificate, e ce ne sono altrettante disoccupate, soprattutto tra le giovani. C’è, dunque, un potenziale di competenze, conoscenze, capacità, energia dal quale non si attinge, perdendo le risorse valide che potrebbero invece contribuire al mondo del lavoro. L’equità di genere nelle aziende serve a non perderle più».

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