Bambini

Ascoltiamo i nostri bimbi

Guerra e pandemia sono causa di forte stress, anche per i più piccoli. Proprio per questo, non dobbiamo sottovalutarne i segnali di disagio. Accudiamoli sempre, con i gesti e con il cuore
Credit: fancycrave/unsplash
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18 giugno 2022 Aggiornato alle 08:00

A fine maggio è stato firmato un Protocollo d’Intesa tra la Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli e il Comitato Italiano per l’Unicef, per la tutela della salute mentale e del benessere psicosociale dei minori, una delle priorità di azione individuate da Unicef a livello nazionale e internazionale.

Questa notizia mi ha fornito lo spunto per condividere una riflessione sul tema, venuto prepotentemente alla ribalta in questi ultimi anni a seguito della pandemia e della drammatica guerra che sta coinvolgendo l’Europa.

Bambini e bambine rappresentano la categoria più soggetta a traumi, non solo fisici ma anche e soprattutto psicologici, capaci di provocare vere e proprie ferite all’anima, spesso molto profonde. Ferite che colpiscono la mente, stravolgendo la quotidianità sia nel modo di vivere che in quello di vedere la realtà.

Avvenimenti apparentemente distanti e non collegati tra loro (l’attacco terroristico dell’11 settembre 2001, lo tsunami che colpì l’Oceano Indiano nel 2004, le immagini delle terapie intensive trasmesse ovunque nel corso della pandemia e, più recentemente, quelle di bambini e anziani ucraini che abbandonano le proprie case alla ricerca di un posto sicuro) rappresentano veri e propri disastri con un elemento comune: l’impatto negativo sulle persone che, direttamente o indirettamente, ne sono vittime. In particolare sulle più vulnerabili: bambini e bambine.

Nel nostro Paese, al sicuro nelle nostre case, non siamo immuni dai traumi indiretti che con l’avvento delle nuove tecnologie comunicative si ripercuotono anche su chi non ne è interessato in prima persona, ma assiste a immagini e notizie con un impatto emotivo forte. Questo vale specialmente per i più piccoli, che non hanno l’abilità e l’esperienza per gestirle.

E qui una prima considerazione: non lasciamo i nostri figli soli a interpretare e metabolizzare le notizie o le immagini che potrebbero generare in loro uno stress emotivo e psicologico. I bambini si affidano a chi li accudisce per affrontare la vita e hanno estremo bisogno di essere rassicurati e ricevere spiegazioni plausibili per accogliere eventi spiacevoli e insoliti.

I piccoli hanno difficoltà a verbalizzare le proprie emozioni e le esprimono con sintomi diversi a seconda della fascia di età. Quelli al di sotto dei sei anni, per esempio, sperimentano in genere dei sensi di colpa, sentendosi responsabili di ciò che accade. L’idea che elaborano è: “se fossi stato più buono e avessi ubbidito ai miei genitori, questa cosa brutta non sarebbe successa”. E allora vengono fuori irrequietezza, agitazione, scatti di rabbia, paura del buio, difficoltà nel dormire.

Dopo i dieci anni, essendosi sviluppato un pensiero concreto ma non avendo ancora la capacità di comprendere gli eventi, rispondono con comportamenti regressivi quali l’enuresi notturna o la suzione del pollice oltre che a perdita dell’appetito, dolori addominali, cefalea, difficoltà in ambito scolastico.

A tal proposito una seconda considerazione: non sottovalutiamo mai i segnali di disagio dei nostri bambini. Il pediatra escluderà con la sua visita cause organiche ma sta ai genitori riferire eventuali situazioni di stress. Impariamo a ascoltare i bambini non soltanto con le orecchie ma con il cuore.

La pandemia da COVID-19 ha portato alla luce moltissime situazioni di disagio. La cosiddetta coronafobia ha infatti accentuato i sintomi di ansia in chi ne era affetto, determinando comportamenti come l’ossessivo lavaggio delle mani, l’eccessiva cautela nel distanziamento, un uso esagerato dello smartphone per i contatti sociali che da reali sono diventati virtuali.

In particolare, nei bambini affetti da disturbi dello spettro autistico, da deficit dell’attenzione e da iperattività, il peggioramento dei sintomi è stato drammatico.

Un’ultima considerazione: si vince con il lavoro di squadra. Per gestire al meglio la salute mentale dei piccoli c’è bisogno di un lavoro che coinvolga caregivers, scuola, pediatra. Le informazioni vanno comunicate ai bambini in maniera aperta e sincera tenendo ovviamente conto dell’età.

I genitori, o comunque chi è più vicino, dovrebbero impegnarsi a trascorrere più tempo con i ragazzi coinvolgendoli in giochi all’aperto, sport, puzzle per minimizzare l’esposizione ai media, soprattutto nel caso di piccoli e piccole.

La scuola dovrebbe dal canto suo promuovere attività di classe che aiutino a comprendere gli eventi traumatici e a stimolare le eventuali richieste di aiuto. Il pediatra ha il fondamentale ruolo di individuare precocemente i segni iniziali di un distress e di formare la resilienza dei piccoli pazienti sensibilizzando le famiglie sull’importanza di avere relazioni intrafamiliari positive e di un ambiente favorevole.

Concludo con un’ultima frase tratta da un articolo scritto da Lewis e Ippen nel 2004 dal titolo “Rainbows of Tears, Souls Full of Hope”: “[…] nonostante le lacrime del trauma, le anime dei bambini sono piene di speranza”.

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