Bambini

Nestlé sotto accusa: zucchero nel latte in polvere (ma solo nei Paesi più poveri)

Un’indagine di Public Eye e International Baby Food Action Network ha rilevato la presenza di saccarosio o miele nei prodotti per bambini sotto i 2 anni, commercializzati dall’azienda nelle aree a basso reddito
Credit: Polina Tankilevitch
Costanza Giannelli
Costanza Giannelli giornalista
Tempo di lettura 5 min lettura
27 aprile 2024 Aggiornato alle 20:00

Di fronte agli occhi del denaro i bambini non sono tutti uguali. Almeno, non per Nestlé per quanto riguarda gli zuccheri aggiunti. A dirlo è Public Eye, un’organizzazione investigativa svizzera, la cui indagine ha svelato che la multinazionale ha commercializzato nei Paesi a basso reddito latte artificiale e prodotti a base di cereale arricchiti di zucchero e miele, una pratica contraria alle linee guida internazionali volte a prevenire l’obesità e le malattie croniche.

Nei Paesi ricchi - quelli Europei, la Svizzera e il Regno Unito, a esempio - gli stessi prodotti sono venduti senza zuccheri aggiunti. Secondo Karen Hofman, docente di Sanità Pubblica all’Università di Witwatersrand a Johannesburg e pediatra, si tratta di «una forma di colonizzazione e non dovrebbe essere tollerata».

Come Nestlé rende dipendenti i bambini dallo zucchero nei paesi a basso reddito” è il titolo del rapporto di Public Eye, che in collaborazione con International Baby Food Action Network ha chiesto a un laboratorio belga di analizzare circa 150 campioni di prodotti disponibili in Asia, Africa e America Latina. Al termine della verifica sono stati rilevati zuccheri aggiunti (sotto forma di saccarosio o miele) nei campioni di Nido, un marchio di latte in polvere per neonati di età pari o superiore a 1 anno, che contiene quasi 2 grammi di zucchero a porzione; e di Cerelac, un cereale destinato ai bambini tra i sei mesi e i due anni, che ne contiene una media di quasi 4, pari a un cubetto. La quantità più alta - 7,3 grammi per porzione - è stata rilevata in un prodotto venduto nelle Filippine e destinato ai bambini di sei mesi.

«Questa cosa è molto preoccupante - ha commentato Rodrigo Vianna, epidemiologo e professore presso il Dipartimento di Nutrizione dell’Università Federale della Paraíba in Brasile. - Lo zucchero non dovrebbe essere aggiunto agli alimenti offerti a neonati e bambini piccoli perché non è necessario e crea elevata dipendenza. I bambini si abituano al gusto dolce e iniziano a cercare cibi più zuccherati, dando inizio a un ciclo negativo che aumenta il rischio di disturbi legati alla nutrizione nella vita adulta. Tra queste figurano l’obesità e altre malattie croniche non trasmissibili, come il diabete o l’ipertensione».

L’Organizzazione Mondiale della Sanità sconsiglia di aggiungere zuccheri agli alimenti nei bambini al di sotto dei 3 anni, oltre a limitare il consumo di zuccheri aggiunti entro il 10% del fabbisogno calorico giornaliero in quelli di età compresa tra i 3 e i 9 anni.

La multinazionale ha sottolineato che alcuni di questi prodotti sono senza saccarosio aggiunto ma nonostante ciò, spiega il rapporto, “contengono zucchero aggiunto sotto forma di miele. Il miele e il saccarosio sono entrambi considerati dall’OMS come zuccheri che non dovrebbero essere aggiunti agli alimenti per l’infanzia”. In effetti, la stessa Nestlé lo spiega molto bene in un quiz educativo sul sito Nido in Sud Africa: sostituire il saccarosio con il miele non ha “nessun beneficio scientifico per la salute”, poiché entrambi possono contribuire all’aumento di peso e forse all’obesità.

Parliamo di prodotti diffusissimi: Cerelac e Nido sono alcuni dei marchi di alimenti per l’infanzia Nestlé più venduti nei Paesi a basso e medio reddito. Secondo dati esclusivi ottenuti da Euromonitor, una società di analisi di mercato specializzata nel settore alimentare, il valore delle vendite in questa categoria è stato superiore a 2,5 miliardi di dollari nel 2022.

Nestlé, si legge nel rapporto, “promuove Cerelac e Nido come marchi il cui obiettivo è aiutare i bambini a “vivere una vita più sana”. Arricchiti con vitamine, minerali e altri micronutrienti, questi prodotti sono, secondo la multinazionale, adattati alle esigenze dei neonati e dei bambini piccoli e aiutano a rafforzare la loro crescita, il sistema immunitario e lo sviluppo cognitivo”.

Un caso plateale di healthwashing, ancor più pericoloso perché fatto sulla pelle dei bambini. Solo quelli più poveri, però. «Esiste un doppio standard qui che non può essere giustificato», ha affermato Nigel Rollins, scienziato dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, quando sono stati presentati i risultati dell’indagine. Per Rollins, scrive Public Eye, «il fatto che Nestlé non aggiunga zucchero a questi prodotti in Svizzera ma sia ben felice di farlo in contesti con risorse inferiori è problematico sia dal punto di vista della salute pubblica che da quello etico».

Cinquant’anni dopo lo scandalo del latte artificiale “The baby killer”, Nestlé continua dunque a essere nell’occhio del ciclone per le sue politiche di vendita del latte in polvere, soprattutto nei Paesi a basso reddito. Nel 1974, infatti, un rapporto accusò la multinazionale di causare malattie e morte infantile nelle comunità povere dei paesi a basso reddito, promuovendo il latte artificiale a scapito dell’allattamento al seno in luoghi in cui la mancanza di accesso a acqua pulita e corrette pratiche di sterilizzazione può avere esiti fatali.

Una pratica che è continuata anche negli anni ’90, a esempio in Pakistan: uscito nel 2015, il documentario Tiger racconta di come il marketing aggressivo e fraudolento abbia presentato il latte in formula come alternativa più salutare, anche grazie alle “Tigri”, venditori addestrati per convincere le madri a interrompere l’allattamento al seno in favore del latte in polvere. Una storia rivelata dall’ex dipendente Syed Aamir Raza e diffusa nel rapporto Milking Profits: How Nestlé puts sales ahead of infant health.

Nel 2018, il rapporto Milking It della Changing Markets Foundation ha accusato la multinazionale e altre aziende del settore di manipolare i consumatori fornendo informazioni nutrizionali ingannevoli e strategie di marketing poco etiche, “mettendo il profitto prima della scienza”.

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