Diritti

Usa: alcuni marchi alimentari sfruttano i detenuti, denuncia Associated Press

L’inchiesta dell’agenzia di stampa fa luce sulle condizioni disumane in cui sono costretti a lavorare, sotto minaccia, uomini e donne in prigione
Credit: Oladimeji Odunsi
Tempo di lettura 6 min lettura
18 marzo 2024 Aggiornato alle 20:00

Una fila di uomini alla catena di montaggio; fanno a pezzi carcasse di animali, lavorano la carne che diventerà hamburger e bistecche mentre dall’alto le guardie li osservano. Lavorano in silenzio; non possono parlare. Non possono smettere di lavorare. Se lo facessero la punizione non si farebbe attendere.

Una fila di uomini chini in un campo; raccolgono cotone sotto il sole cocente. Non hanno nulla da bere: alcuni di loro svengono per il gran caldo. Non possono smettere di lavorare, non possono ribellarsi. Se lo facessero la punizione non si farebbe attendere. Mentre lavorano una guardia armata a cavallo li osserva.

La prima di queste due scene è tratta dal romanzo-denuncia Catene di gloria di Nana Kwame Adjei-Brenyah (Sur, 504 pagine, 20€); la seconda, invece, è stata presa dal report sulle condizioni di lavoro dei detenuti nelle carceri statunitensi pubblicato da Associated Press, che per due anni ha indagato sulle reti “intricate e invisibili che collegano alcune tra le maggiori aziende alimentari del mondo e il lavoro di detenuti e detenute in tutto il Paese che genera ogni anno milioni di dollari in prodotti agricoli”.

Che grandi marchi come McDonald, Walmart, Coca-cola o Aldi (questi sono solo alcuni di quelli identificati dall’analisi di Ap) si affidino al sistema penitenziario per assumere manodopera in prima battuta potrebbe sembrare una cosa normale, e persino positiva, se non fosse che le condizioni di lavoro sono quasi sempre quelle raccontate nelle due scene di apertura di questo articolo.

I detenuti e le detenute che, come ricorda l’agenzia di stampa, sono il segmento più vulnerabile della forza lavoro statunitense vengono costretti a lavorare in condizioni disumane sotto la minaccia costante di punizioni che vanno dall’isolamento al rifiuto di concedere loro la libertà vigilata. Non ricevono nessun compenso (o al massimo pochi centesimi l’ora) e non godono di nessuna di quelle tutele generalmente garantite a chi lavora full time.

E quel che è peggio è che, anche in caso di gravi incidenti o di morte sul lavoro, raramente hanno la possibilità di appellarsi alla legge per avere un risarcimento. L’Ap ha raccolto decine di testimonianze di detenuti che sono stati feriti e delle famiglie di coloro che sono rimasti uccisi sul lavoro. Ci sono anche moltissime denunce di detenute abusate o molestate sessualmente da parte dei loro supervisori civili o delle guardie che avevano il compito di sorvegliarle.

Per aggiungere la beffa al danno, le aziende che utilizzano manodopera reclutata nelle prigioni per alcune tra le mansioni più faticose e pericolose, senza garantire salari dignitosi o sicurezza sul lavoro, ottengono sgravi fiscali e altri incentivi.

La schiavitù non è finita nel 1865

“Lavoriamo per niente - diceva uno dei personaggi di Adjei-Brenyah in Catene di gloria - Lavoriamo e lavoriamo e non guadagniamo niente. Abbiamo fatto del male perciò ora siamo schiavi. Lavoriamo gratis qui dentro per gente che sta fuori. Si. Schiavi in una scatola crudele. Nient’ altro”.

I libri di storia ci hanno insegnato che la schiavitù negli Stati Uniti è finita dopo la Guerra Civile, nel 1865. Quello che invece raramente viene ricordato è che la famosa modifica del tredicesimo emendamento ha abolito la servitù involontaria e il lavoro forzato in ogni circostanza tranne nei casi di condanne penali. Il che significa che formalmente negli Usa nessuno può più essere schiavo, a parte chi si trova in carcere.

“Dopo la guerra civile la clausola di eccezione del tredicesimo emendamento ha fornito la copertura legale per incastrare migliaia di persone, principalmente giovani uomini neri - scrive Ap - Molti di loro venivano incarcerati per piccoli crimini come il vagabondaggio e poi ceduti dallo Stato alle piantagioni o alle grandi aziende del Paese, incluse quelle dell’industria mineraria o quelle che si occupavano della costruzione delle reti ferroviarie. […] Il carcere veniva usato non come strumento di punizione o riabilitazione, ma per profitto. Poi passò una legge che rendeva illegale trasportare o vendere beni prodotti dai detenuti oltre i confini statali, ma venne fatta un’eccezione per i prodotti agricoli. Attualmente, dopo anni di sforzi dei legislatori e di chi opera nel business, le grandi aziende si stanno alleando con le agenzie penitenziarie per poter vendere praticamente qualsiasi cosa in tutto il Paese”.

Oggi come allora il fenomeno servile colpisce principalmente la popolazione nera (che rappresenta la maggioranza dei detenuti). Secondo i dati raccolti dal Pew Research Center nel 2018, su 100.000 uomini neri 2.272 erano in carcere (per i bianchi il rapporto era 392/100.000) e su 100.000 donne nere erano detenute in 88 (49 per le bianche). Lo spiccato bias razziale è talmente grande e palese che ha portato alcuni studiosi a coniare l’espressione New Jim Crow, dal nome delle leggi che per quasi 100 anni mantennero in piedi il sistema della segregazione razziale.

Ripagare il debito con la società

Campi, allevamenti, macelli, stabilimenti di lavorazione del pesce, fabbriche, cantieri, talvolta fast food. La forza lavoro fornita dal sistema penitenziario è presente in moltissimi settori, e per lo più invisibile. Ai detenuti e alle detenute viene chiesto di svolgere le stesse mansioni dei loro colleghi civili ma senza formazione, senza tutele e senza diritti, e nonostante quello che generalmente si crede, non è sempre vero (anzi quasi mai lo è) che i lavori che svolgono durante il periodo di detenzione garantiranno esperienza e abilità che consentiranno di reinserirsi una volta fuori.

Nonostante questo, da buona parte della società civile è ancora percepito come giusto che i detenuti lavorino per ripagare il loro debito con la società. Anche volendo considerare il lavoro una forma di riparazione per il danno arrecato con il proprio crimine, è comunque necessario porsi in modo critico di fronte al modo in cui questo principio viene attuato e chiedersi innanzitutto se lavorare per far arricchire grandi multinazionali possa considerarsi un servizio reso alla società.

E se anche la risposta fosse sì, rimane il tema del rispetto dei diritti umani e dell’inammissibilità della reiterazione di misure di sfruttamento servile che dovrebbero essere ormai completamente abolite, senza nessuna eccezione.

Come scrive Adjei-Brenyah in Catene di gloria, “Ho visto uomini che sapevo essere un pericolo per il mondo, e neanche loro si meritano questo”.

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