Culture

Violenza di genere: non è mai un raptus

Stefania Spanò (in arte Anarkikka) unisce parole e immagini per raccontare gli abusi fisici, sessuali, psicologici, economici, ostetrici. Dando voce alle lotte, alla rabbia ma anche alla speranza delle donne
Valeria Pantani
Valeria Pantani giornalista
Tempo di lettura 5 min lettura
16 marzo 2024 Aggiornato alle 18:00

Dire che un donna “se l’è cercata” per come era vestita è violenza. Dire che lui l’ha ammazzata “perché ha perso il controllo, ma l’amava” è violenza. Dire che non c’è stato stupro perché “lei non ha urlato”, “non si è opposta”, “non ha denunciato” è sempre violenza. E lo è anche controllare le finanze della propria partner, così come lasciare le neo mamme sole dopo il parto, abbandonarle quando sono allo stremo delle forze, prive di supporto, impaurite.

Pochi giorni dopo la Giornata internazionale della donna e circa un mese dopo la revisione della direttiva europea sulla violenza di genere (che non menziona lo stupro), vale la pena ricordare un po’ di numeri.

Il 49% delle donne ha subito violenza economica almeno una volta nella vita; nel 2023 ci sono stati 120 femminicidi, 64 compiuti da partner o ex. E nel 2024 siamo già a quota 20, di cui 18 in ambito familiare/affettivo: tra loro, 8 donne sono state uccise da partner o ex. E ancora: 7 su 10 hanno subito molestie sul luogo di lavoro (come commenti non richiesti), mentre il 40% ha avuto contatti fisici indesiderati. Per non parlare poi del gender pay gap, delle donne che sono spesso costrette a lavorare part time per occuparsi del lavoro di cura (gratuito), della sottorappresentazione del genere femminile in politica e “ai piani alti” delle aziende.

L’8 marzo è passato, eppure l’8 marzo è tutti i giorni: è fondamentale ricordare, sempre, che la violenza di genere non è un caso “isolato”, una notizia che si legge sul giornale oggi e che verrà dimenticata già domani; non è una “mela marcia” in una società sana. “I mostri non sono malati, sono figli sani del patriarcato” diceva Elena Cecchettin. Bisogna lottare, con tutti i mezzi a nostra disposizione, compresi i libri. D’altronde si sa: le parole (quelle giuste, corrette, pensate, lontane dal clickbait dei giornali e dei social) sono importanti e hanno la capacità di cambiare, in meglio, idee e visioni.

E proprio per restituire la voce a tutte quelle donne a cui è stata e viene tolta che Stefania Spanò, in arte Anarkikka, autrice e vignettista, ha scritto Non chiamatelo Raptus (People, 18 euro, 132 pagine): un libro per raccontare il dolore, la rabbia, la violenza ma anche la resistenza e la speranza.

Gli uomini credono di avere un legittimo potere, un possesso, sulle donne; e così le uccidono (“Il femminicidio non è un delitto passionale, è un delitto di potere” diceva sempre Elena Cecchettin). Le molestano, a volte in maniera quasi invisibile, attraverso ricatti o insulti, decidendo del loro corpo, di quando dovranno essere madri (perché dovranno, devono volerlo) in virtù di una presunta superiorità che li assolve.

Tra le pagine di Non chiamatelo raptus, le parole di Anarkikka prendono vita attraverso le sue vignette.

“Sì lo voglio” c’è consenso se c’è assenso!

“Le strade libere le fanno le donne che le attraversano”. “Sempre che non ci siano uomini in giro”.

Sullo stupro si dice tutto. Se non ti hanno stuprato.

In guerra gli uomini muoiono, i bambini muoiono, le donne sono stuprate e muoiono.

Con le donne che stanno scatenando l’Iran di Dio!

E lui disse: “Moltiplicherò i tuoi dolori, con dolore partorirai…” … e ti lasceranno sola.

Queste sono alcune delle frasi riportate nel libro che accompagnano i disegni di Anarkikka e che, in molti casi, prendono spunto da fatti realmente accaduti: il femminicidio di Sarah Everard, la guerra in Ucraina, il movimento iraniano “Donna, vita, libertà” nato dopo la morte di Mahsa Amini, la violenza ostetrica e il caso dell’ospedale Pertini.

La violenza è sistemica, ma osservare solo i femminicidi sarebbe sbagliato, perché (purtroppo) c’è molto di più: catcalling, leggi anti abortiste, gender pay gap. “Dimenticare il resto vuol dire fare finta che quel puzzle non esista. E invece c’è: è qui, davanti ai nostri occhi. Basta unire i pezzi - ricorda Vera Gheno, linguista e saggista, che ha curato la prefazione del libro - è esattamente ciò che fa Stefania Anarkikka Spanò: mette in fila tanti, troppi episodi che dobbiamo ricordare, uno per uno, mostrandoci quel disegno perverso che ancora troppe persone negano”.

Come cambiare le cose? Educando, fin da piccoli, i bambini, le bambine, i ragazzi e le ragazze, adolescenti, ma anche adulti, sensibilizzando e insegnando il rispetto e la sana affettività. E poi, ascoltando le nostre sorelle, le vittime di violenza di genere, le donne che hanno denunciato e quelle che non l’hanno fatto, per far capire loro che non sono sole, che non è colpa loro: “io ti credo: tu non sei responsabile”.

Ma questo è un lavoro di squadra: “la sorellanza non esclude da sé la presenza degli altri generi - spiega Gheno nella prefazione - Dobbiamo lavorare per una società basata su presupposti diversi, migliori, più giusti nei confronti di ogni essere umano”.

Siamo stanche di doverci vestire in un “certo modo”, tenere strette le chiavi quando torniamo la sera a casa da sole, percorrere le strade più illuminate come se fossero più sicure, avere sempre paura di far sentire la nostra voce perché temiamo di essere giudicate “aggressive” o di viaggiare da sole perché “non è sicuro”. Di essere molestate, violentate, stuprate, denigrate, insultate, stereotipate. Uccise.

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