Diritti

Postpartum: quello che le donne (non) dicono

Stremate, terrorizzate, insicure. Anche quando non accadono tragedie irreparabili, le neomamme sono spesso abbandonate a fronteggiare paure e responsabilità da sole. Dobbiamo pretendere di più
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Costanza Giannelli
Costanza Giannelli giornalista
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23 gennaio 2023 Aggiornato alle 10:00

Un urlo. Alcune cronache dicono che svegliare il reparto neonatale dell’ospedale Pertini sarebbe stato il grido della madre che ha scoperto che il suo bimbo di 3 giorni era morto. Si era addormentata mentre allattava, si è svegliata e le hanno detto che il piccolo non respirava più. Il perché lo stabilirà la magistratura: ora, è parte lesa nell’indagine per omicidio colposo contro ignoti, perché “vittima di un comportamento omissivo o comunque scorretto dal punto di vista professionale”.

Forse di fronte a una tragedia di questa portata e a un dolore così inconcepibile l’unica cosa che dovremmo fare è tacere e stringere, per quello che vale, questa madre in un abbraccio collettivo, sapendo che non può lenire la sua pena.

O, forse, dovremmo smettere di tacere.

Dovremmo dire che le madri nel postpartum sono, quasi sempre, sole.

Con compagni, compagne, mariti, mogli, genitori, congiunti e congiunte che non possono star loro accanto se non per poche, pochissime ore, perché le restrizioni pandemiche sono scomparse ovunque tranne che in alcuni reparti maternità.

Perché la differenza tra lo stare soli e avere qualcuno accanto la fa la possibilità di potersi pagare - caro - il lusso della stanza privata, con cifre che vanno da qualche centinaia fino a migliaia di euro. Cifre che non sono quasi mai coperte dalle assicurazioni integrative e che, con stipendi medi di 1550€ netti al mese e con 4 donne su 10 che non lavorano, ben pochi possono permettersi.

Le neo-mamme sono abbandonate. A se stesse, a nuove ed enormi paure e responsabilità, anche se all’interno di strutture che quelle donne - e non solo i loro figli neonati - dovrebbero accogliere, e tutelare. Quasi 1 su 3 secondo l’indagine Doxa lamenta una carenza di sostegno e di informazioni sull’avvio dell’allattamento. E l’allattamento non è che una delle mancanze che si trasformano in piccoli e grandi abusi che vanno a comporre il quadro drammatico della violenza ostetrica.

Dovremmo dire che dopo il parto siamo stravolte. Dal dolore, dalla stanchezza, dall’insensatezza di un momento in cui da un secondo all’altro sei madre, o madre di nuovo, e quella creatura immaginata è davanti a te, fuori da te, reale. E non sappiamo che fare, anche se non abbiamo fatto altro che preparaci a quel momento.

Dovremmo dire che a fare la differenza nell’assistenza postpartum è ancora troppo spesso il grado di umanità dei singoli - che fanno davvero la differenza - piuttosto che un sistema che mette al centro il benessere della coppia di neonati: la madre e il figlio appena venuti alla luce, insieme.

Io sono stata fortunata, molto fortunata. Eppure non credo di essere mai stata così stanca, terrorizzata e insicura come durante la lunga, lunghissima notte con mia figlia tra le braccia e la peggiore programmazione televisiva come unica compagnia.

Dovremmo dire che il rooming in (la pratica di far dormire il neonato nella stanza della madre invece che al nido) ha indubbiamente tantissimi benefici per il piccolo, per l’allattamento e per il legame con la mamma – e, infatti, lo diciamo, basta fare una ricerca online per vedere l’onnipresenza di contenuti che esaltano i lati positivi di questo approccio – ma che non dovrebbe essere l’unica opzione per ogni donna in ogni situazione. Che dovrebbe, appunto, essere una scelta.

Già uno studio dell’Università di Torino lo diceva nel 2017: “L’impiego del R-in da parte delle donne varia in base al parto e quindi alla condizione fisica. È importante supportare le donne tenendo in considerazione queste difficoltà e offrendo flessibilità nel servizio e fornire un buon livello di informazioni che consenta loro di percepire un maggiore controllo sulla situazione, specie in caso di taglio cesareo”. Sono passati 6 anni, ma niente è cambiato, anzi. Molte donne continuano a viverla come un’imposizione, nel migliore dei casi, come “una scusa per pagare meno personale” nei peggiori.

Dovremmo dire che non c’è vergogna nel mandare il neonato nella nursery – nei rarissimi casi in cui è disponibile. Che dovremmo poterlo fare senza il biasimo e lo sguardo giudicante di chi dovrebbe essere lì per assisterci e che invece sembra non vedere l’ora di coglierci in fallo, nella nostra incapacità di allattare, accudire e di essere le superdonne e le super mamme in cui il supposto istinto materno dovrebbe trasformarci d’emblée.

Che non c’è maggior onore nel “sacrificarsi” e rimanere sveglie per giorni dopo uno sforzo – che più che naturale sembra sovrannaturale a livello fisico, psicologico ed emotivo – per occuparsi da sole di quell’essere minuscolo che pretende attenzioni quando vorremmo solo dormire, solo un po’, prima di varcare la porta di quell’ospedale e ritrovarci catapultate in una vita stravolta rispetto a quella che abbiamo lasciato quando abbiamo varcato la soglia.

Che avere BISOGNO di qualcuno che ci aiuti non è sintomo di debolezza o incapacità. O forse sì, e va bene lo stesso. Che possiamo essere deboli, incapaci, impaurite. Che questo non fa di noi delle pessime madri o delle donne sbagliate.

Ci vuole un intero villaggio per crescere un bambino, dicono in Africa. Qui basterebbe ricordare che le madri non possono, né devono, fare tutto da sole.

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