Storie

“Broken Dream” racconta la vita di Luca Attanasio

Il documentario di Jacopo De Bertoldi tenta di ricostruire ciò che successe il 22 febbraio 2021 (quando l’ambasciatore italiano nella Repubblica Democratica del Congo fu ucciso), ma non solo. La Svolta ne ha parlato con il regista
Jacopo De Bertoldi, regista di Broken Dream
Jacopo De Bertoldi, regista di Broken Dream
Tempo di lettura 6 min lettura
5 marzo 2024 Aggiornato alle 13:00

Il giornalista che ha scritto l’articolo e l’ambasciatore italiano non sono imparentati.

Broken Dream è il primo documentario sulla vita, il senso della missione diplomatica, la visione e la tragica morte di Luca Attanasio, ambasciatore italiano ucciso nella regione del Kivu del Nord, Repubblica Democratica del Congo, il 22 febbraio 2021, insieme al carabiniere di scorta Vittorio Iacovacci e all’autista congolese Mustapha Milambo.

Diretto da Jacopo De Bertoldi (autore e regista) e basato su un soggetto di Imma Vitelli, il docufilm è prodotto da Filippo Macelloni/Nanof e da Fabio Scamoni/Red House in collaborazione con Rai Documentari e patrocinato dal Ministero degli Esteri.

L’opera racconta Luca Attanasio nei suoi momenti più intimi, insieme alla moglie e alle tre figlie, attraverso immagini e parole; racconta quale fosse la sua idea di diplomazia in Africa, fuori dai compound europei, immersa nella realtà locale; racconta la storia di un professionista appassionato che sentiva la responsabilità verso gli italiani che vivevano nella regione ma, al tempo stesso, che viveva la curiosità umana, la voglia di incontrare, di aiutare il Paese che lo accoglieva, di guardarlo con occhi decolonizzati. Ma getta anche uno sguardo sul processo svoltosi presso la corte militare di Kinshasa, conclusosi ad aprile con la condanna all’ergastolo di cinque uomini, accusati di essere gli organizzatori e gli esecutori dell’attentato (un iter giuridico che lascia ancora oggi tante perplessità) e sulle infinite tribolazioni di un Paese ricchissimo, forse il più ricco di ogni materia necessaria al genere umano, ma sprofondato nell’inferno della guerra, dell’instabilità e della povertà da decenni.

A fare da guida in questo viaggio di immersione nella vita e la morte dell’ambasciatore italiano, la moglie Zakia Sediki, che, due anni dopo la tragedia, torna a Kinshasa con le tre figlie, per riprendere il filo di una storia.

La Svolta ha incontrato il regista Jacopo De Bertoldi e con lui (che ha trascorso molto tempo in Congo ed è entrato in contatto con persone, luoghi e realtà che hanno caratterizzato la vita e la morte di Luca Attanasio) ha provato a capire di più su questa storia al tempo stesso atroce e profonda.

Attraverso questo lavoro ha avuto modo di “incontrare”, metaforicamente, Luca Attanasio: che idea si è fatto?

In un certo senso la figura di Attanasio mi ha commosso, conquistato, la sua morte mi ha toccato particolarmente: un uomo sacrificato sull’altare della ricerca della giustizia e della pace. Non conoscevo affatto la sua storia prima, ma ho intervistato tantissime persone e una idea me la sono fatta: da tutti i racconti emerge un uomo in cui l’entusiasmo, il talento e l’energia convergevano verso un’azione molto concreta quanto creativa.

Nell’ambito del panorama diplomatico, lui incarnava una figura sicuramente atipica, fuori dagli schemi: possiamo dire che ha inaugurato una sorta di diplomazia del “corpo”?

Sì, era molto fisico, ci metteva faccia, braccia, corpo, si muoveva, incontrava, non aveva paura di mischiarsi tra la gente, i bambini in particolare. Uno dei suoi mentori, l’ambasciatore Batocchi, che ho incontrato, l’ha definito un ufo, un oggetto non ben identificato nell’ambiente rigido e ingessato della diplomazia europea, specie in Africa. Amava incontrare, capire, stare in mezzo alla gente. Ho avuto l’impressione che questa sua fosse una vocazione che andava al di là della professionalità.

Nel documentario si vedono le immagini del processo a Kinshasa; sono un contributo molto utile alla ricostruzione delle vicende processuali che, come osservano molti a cominciare dalla famiglia, hanno portato scarsi risultati: i due procedimenti (il processo ai due funzionari del Pam - Programma Alimentare Mondiale, conclusosi a Roma con un proscioglimento per non processualità a causa di immunità diplomatica e quello in Congo con la condanna controversa di cinque uomini) non accendono molte luci su tutta la vicenda. Che idea si è fatto da Kinshasa dei tentativi di ricerca della verità?

La mia impressione generale è che i processi abbiano fatto pochissima luce. Da quello che ho capito parlando con persone a lui vicine a Goma o altre che ho intervistato a Kinshasa, quei cinque ragazzi sono poco più che capri espiatori presi a caso tra piccoli malviventi. Durante tutto il processo gli imputati si sono proclamati innocenti e hanno sempre sostenuto, attraverso gli avvocati (sono tutti analfabeti, non parlano lingue europee ma il processo si è svolto in francese, ndr) che le loro confessioni iniziali erano state estorte con la tortura. Certo, gli imputati hanno anche fatto ricostruzioni con dovizia di particolari che farebbero pensare che almeno erano nel luogo dell’attentato o che in qualche modo vi hanno preso parte, ma su tutto il procedimento, come mi hanno confermato varie voci raccolte, gravano molti dubbi. Il processo ai due funzionari del Pam, poi, accusati di “omesse cautele” (Rocco Leone, all’epoca direttore a interim di Pam Congo e il suo collaboratore Mansour Rwagaza, ndr) non si è potuto svolgere perché l’organismo dell’Onu si è avvalso dell’immunità diplomatica. Insomma mancano molti pezzi per avvicinarsi alla verità.

Dopo tanti mesi trascorsi sul campo e tante voci raccolte, che ipotesi si sente di fare? Secondo lei, cosa è successo quel drammatico 22 febbraio 2021?

Di certo chi ha agito, ha avuto informazioni sul fatto che Attanasio viaggiava senza scorta, su veicoli non blindati. Forse le informazioni sono arrivate proprio a quei cinque condannati all’ergastolo o forse ad altri, di sicuro c’è che non hanno agito da soli e restano del tutto oscuri movente e mandanti. Non credo sia stato un rapimento, l’idea che mi sono fatta è che qualcuno agisse per interessi specifici e non si sia trattato di un semplice tentativo di rapimento a un bianco. Attanasio si occupava di molte cose, i suoi interessi andavano al di là della suo ruolo era molto attento alle cause degli ultimi, alla promozione della giustizia e nei suoi viaggi umanitari può aver toccato nervi scoperti.

Ha lavorato a stretto contatto con Zakia, la moglie, e ha avuto modo di conoscere bene gli affetti di Attanasio

Ho passato un anno con Zakia tra preparazione e riprese. La prima cosa che emerge è un grandissimo affetto, un legame molto forte tra i due coniugi e con le bimbe. Zakia è stata una spalla fondamentale di Luca, non la classica “moglie dell’ambasciatore”, una che in qualche modo lo aiutava a gestire la sua complessa agenda. Una donna di alta qualità e intelligenza, Luca era innamoratissimo di lei, e lei di lui. Ho saputo che erano gelosissimi l’uno dell’altra. Ora si ritrova a vivere una enorme complicazione, in un Paese non suo, con tre figlie ancora molto piccole. Non è certo facile.

Un’ultima domanda sul Congo: che realtà avete trovato?

Il Congo è un inferno. In alcuni luoghi, quelli dell’attentato, era impossibile arrivare. Un Paese con un livello di corruzione altissimo, dove la vita vale poco e la cosa terribile è che i responsabili siamo noi occidentali, sia per passato coloniale che per il presente predatorio. Mi ha fatto piacere, quindi, parlarne nel nostro documentario. Ha avuto ottimi ascolti e al di là del piacere personale, ci sentiamo soddisfatti perché abbiamo fatto emergere la storia straordinaria di Luca Attanasio ma anche aiutato a conoscere la storia di un Paese con 20 anni e più di guerra, milioni di morti e rifugiati: fenomeni in gran parte generatisi per garantirci telefonini, e automobili.

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