Ambiente

Africa ed energia: differenti visioni e diversi futuri

Mentre l’Italia continua a privilegiare la produzione di carburante, con un ingente investimento il Giappone realizzerà in Kenya impianti di energia pulita e incentiverà la produzione di auto elettriche
Credit: Jason Blackeye 
Tempo di lettura 5 min lettura
3 marzo 2024 Aggiornato alle 06:30

Mentre la stampa africana e anche quella italiana riportano la notizia che i piani Eni in Kenya per la produzione dei biocombustibili non procedono come sperato dai contadini keniani, posto che il colosso energetico afferma che tutto sta evolvendosi come da copione, il Giappone ci insegna che si può pensare all’Africa in modo innovativo, puntando su fonti rinnovabili e mobilità elettrica.

Con un investimento di circa 470 milioni di dollari Usa (circa 430 milioni di euro) concluso in questi giorni, il Paese del sol levante spinge il Kenya a scommettere sull’ energia geotermica, eolica e solare con la realizzazione dei relativi impianti, e sulla produzione di veicoli elettrici.

Il tema dei veicoli elettrici è caldo in un Paese quale il Kenya, che ha una cospicua carenza di carburanti e un elevato inquinamento atmosferico. Non solo, l’intesa con il Giappone dovrebbe portare, attraverso Toyota che investirà in proprio altri 5 milioni di dollari, anche alla creazione in loco di un’industria di assemblaggio di componenti automobilistici e la conseguente nascita di posti di lavoro, a contrastare una forte disoccupazione giovanile (circa al 15%) legata a una crescita demografica non dissimile a quella del nostro baby boom degli anni 60 (circa il 2% annuo).

La produzione locale di nuovi veicoli dovrebbe inoltre incentivare la sostituzione di un parco auto vetusto che rientra fra le cause dei numerosi incidenti, spesso mortali, che funestano le strade di Nairobi. Nonostante questi siano attribuibili principalmente all’abuso di alcol e droghe, tanto da condurre le autorità a introdurre una sorta di proibizionismo che allontana i punti vendita degli alcolici dalle stazioni dei pulmini di trasporto collettivo - i famosi “matatu” - per evitare che gli autisti si ubriachino durante le soste tra una corsa e l’altra, anche le auto vecchie e meno sicure indubbiamente contribuiscono.

Ma perché l’Italia dovrebbe trarre insegnamento dal Giappone? In un momento in cui l’azione di governo si incentra sul riconoscimento della rilevanza dei rapporti con l’Africa, dando nuovo impulso a investimenti nel Continente (il noto Piano Mattei), continuiamo a privilegiare la produzione di carburanti (siano essi quelli tradizionali oppure bio che riducono il male ma non lo eliminano, sia in termini di emissioni sia di inquinamento) trascurando quelle che sono le vere fonti alternative e, probabilmente, alienandoci definitivamente le simpatie delle future generazioni africane.

Un particolare non trascurabile, dato che i giovani africani sono sempre più attenti ai temi dell’inquinamento e del riscaldamento globale, a differenza dei più anziani che sono ancora al potere ma non lo saranno a lungo. Da un sondaggio di Afrobarometer di fine 2023, risulta infatti che i tre quarti degli africani di 39 Stati ritengono necessarie immediate azioni contro il cambiamento climatico anche ove ciò rappresenti costi e sacrifici.

Inoltre, è sufficiente leggere la stampa locale per vedere che, a torto o a ragione, siamo proprio noi occidentali a essere additati quali colpevoli di questa emergenza, in quanto abbiamo iniziato a inquinare per primi e con impatti negativi su base pro capite molto più elevati di quelli determinati da Cina e India.

Rimanendo sul tema del riscaldamento globale e tornando alla produzione di vegetali da trasformare in biocarburanti, dalla stampa locale apprendiamo che la causa dell’insuccesso lamentato dai contadini keniani è altresì legata alla distruzione delle infrastrutture di trasporto, causate dalle alluvioni e inondazioni esacerbate dal cambiamento climatico. Vaste zone del Kenya sono infatti interessate da fenomeni siccitosi sempre più ricorrenti e sono proprio quelle in cui si è proposto di coltivare specie vegetali non bisognose di irrigazioni costanti. Quando però piove dopo una siccità, l’acqua trascina via tutto, anche le strade.

Serve a poco quindi coltivare terreni aridi con vegetali alternativi come il ricino utilizzato per i biocarburanti, se poi non sai come trasportarli altrove. E ci riferiamo a piccoli produttori, spesso in possesso di un solo ettaro di terreno scarsamente fertile, che non hanno la possibilità di sopperire con mezzi propri ai rovesci della fortuna.

Senza prendere posizione sul tema dei biocombustibili e sull’opportunità di spostare le coltivazioni dalla produzione alimentare a quella energetica (spesso si dice che si tratti solo dell’utilizzo di scarti e che tali coltivazioni siano necessarie per beneficiare della rotazione delle colture, ma il dubbio che sia effettivamente così rimane lecito), un punto appare chiaro. Il cambiamento climatico in atto è legato in gran parte alla combustione termica e coloro che ne stanno pagando il prezzo più elevato sono quei Paesi che ben poco hanno contribuito a causarlo. Volere continuare in questo processo produttivo, seppure con aggiustamenti che ne mitigano gli effetti negativi, ma non li eliminano, conduce le vittime ad assumere atteggiamenti negativi, se non ostili, verso chi persegue tali politiche di produzione.

Se vogliamo allora davvero cambiare approccio con l’Africa in una logica di comune interesse, dovremmo cercare di uscire dagli schemi utilizzati sino a oggi, che continuiamo a perpetrare in una sorta di coazione a ripetere che difficilmente può produrre risultati positivi.

Pensare allora al di fuori degli schemi consolidati è la vera sfida per il nostro futuro. Il Giappone in questo - almeno in Africa - sta segnando una strada diversa con la mobilità sostenibile ed energie alternative. Dovremmo fare lo stesso.

Leggi anche