Futuro

Cos’è la “zoom fatigue”?

Un gruppo di scienziati austriaci ha dimostrato l’esistenza della sensazione di spossatezza fisica e mentale legata all’utilizzo intensivo delle piattaforme per videoconferenze
Credit: Surface  

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13 febbraio 2024 Aggiornato alle 09:00

Negli ultimi anni, complice anche la pandemia di coronavirus, abbiamo assistito a un cambiamento sostanziale nel mondo del lavoro, con l’imporsi dello smart working e con esso l’utilizzo delle videoconferenze come principale veicolo di comunicazione.

Se lavorare da casa viene spesso considerato un valore aggiunto, che consente di equilibrare lavoro e vita privata, chi lavora principalmente da remoto sperimenta spesso una fatica mentale quasi maggiore di chi si reca quotidianamente in ufficio.

Si tratta della videoconference fatigue (Vcf), informalmente chiamata zoom fatigue, definita dagli esperti come la “spossatezza somatica e cognitiva causata dall’utilizzo intensivo o inappropriato di strumenti di videoconferenza”.

Naturalmente, la possibilità di comunicare attraverso videochiamate esiste già da molti anni, ma il problema è emerso solo recentemente, quando in seguito all’aumento vertiginoso del loro utilizzo (si pensi che tra dicembre 2019 e marzo 2023 le visite mensili al solo sito di Zoom sono passate da 71 a 943 milioni, un incremento di oltre il 1.000%) sempre più persone hanno iniziato a riportare segnali di stanchezza e irritabilità alla fine della giornata lavorativa, sintomi che non riscontravano quando il lavoro era svolto esclusivamente in presenza.

Fino a qualche tempo fa, l’esistenza della Vcf era considerato solo un fatto soggettivo, ma a novembre dell’anno scorso un team di scienziati austriaci ha condotto un esperimento che ne ha provato scientificamente l’esistenza.

Il dottor Gernot Müller-Putz, capo dell’Istituto di ingegneria neurale dell’TU Gratz, ha studiato l’attività cerebrale e cardiaca di 35 studenti durante 2 lezioni da 50 minuti, una online e una in presenza per rilevare sintomi fisici e neurologici di fatica e stanchezza.

I dati raccolti sono stati poi integrati con quelli emersi tramite questionari di autovalutazione compilati dai soggetti esaminati riguardo il loro umore e il loro livello di stanchezza.

Conformemente a quanto riportato da altri utilizzatori di piattaforme di videoconferenze, anche gli studenti esaminati hanno affermato di sentirsi più stanchi, affaticati, prosciugati, stufi e anche meno felici e attivi dopo aver seguito la lezione in videoconferenza, rilevando un generale tono dell’umore molto più basso di quello dopo la lezione in presenza.

Il dato interessante della ricerca in questione è che i dati soggettivi sono perfettamente supportati da quelli fisiologici e fisici. Gli studenti, infatti, durante le 2 lezioni sono stati monitorati attraverso encefalogramma e elettrocardiogramma e sia i dati dell’attività cerebrale sia quelli dell’attività cardiaca hanno mostrato una situazione di grande affaticamento nel caso della videoconferenza.

Secondo Müller-Putz sono principalmente 4 i motivi che portano il cervello a dover lavorare di più quando siamo in videoconferenza rispetto a quando siamo dal vivo.

Il primo elemento da biasimare è la mancanza di sincronicità nella comunicazione. I segnali comunicativi (parole, gesti, espressioni) attraverso il mezzo digitale arrivano sempre in ritardo. Talvolta questi ritardi sono piccoli, quasi impercettibili, ma vengono colti dal cervello che deve dunque spendere più energie per dare senso alle informazioni che riceve.

La seconda ragione è la quasi totale mancanza dei segnali non verbali. Quando siamo in una videoconferenza generalmente vediamo solo una parte del corpo dell’interlocutore (di solito il viso) perdendo così tutti i segnali comunicativi che vengono, per esempio, dal movimento delle mani, dalla postura o dal modo di stare seduti. Anche le sfumature dell’espressione facciale si perdono, filtrate dal mezzo telematico. L’insieme di questi fattori rende più difficile cogliere eventuali cambiamenti emotivi o di umore di chi abbiamo davanti, impedendoci di adattare efficacemente la nostra comunicazione, come invece succederebbe di persona. Questo rende la comunicazione più difficile e, talvolta, frustrante.

Il terzo punto di attenzione è l’impossibilità di stabilire il contatto visivo, un importante elemento di coordinamento nella comunicazione. Attraverso lo sguardo otteniamo approvazione o disapprovazione e riusciamo a comprendere le emozioni di chi ci sta davanti rispetto a ciò che stiamo dicendo. Quando questo manca, il cervello deve supplire cercando altre fonti di informazione, aumentando così il livello di fatica.

Non da ultimo, il team di ricerca ha evidenziato che le videoconferenze ingigantiscono la percezione che abbiamo di noi stessi. Dal momento che in nessun’altra situazione comunicativa (a meno che la persona con cui stiamo parlando non abbia alle spalle uno specchio) possiamo vederci, secondo Müller-Putz, nelle videoconferenze prestiamo molta più attenzione al nostro aspetto e all’ambiente che ci circonda.

«Avrò messo la maglietta giusta? Come mi vedono gli altri? Cos’ho sullo sfondo? Ci sono un sacco di foto dei miei figli, forse dovrei toglierle prima dell’incontro con il capo. Tutti questi pensieri passano in sequenza, uno dopo l’altro, talvolta accavallandosi. Qualcosa che non succede quando siamo seduti a un tavolo, faccia a faccia», spiega Müller-Putz.

Come possiamo fare, dunque, per alleviare la fatica mentale delle videoconferenze, quando ormai sono diventate una costante nella nostra routine lavorativa? I ricercatori sostengono che sia necessario fare pause molto frequenti, per riposare il cervello, e cercare di far durare le chiamate il minimo necessario, mai più di 45 minuti.

Inoltre, dal momento che la Vcf è un problema molto serio e può aumentare la probabilità di depressione e burnout, è bene prendere coscienza del problema e fare in modo che i datori di lavoro riconoscano che le videoconferenze sono uno strumento utile e possono facilitare il lavoro ma in nessun caso dovrebbero sostituire l’interazione di persona.

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