Economia

McKinsey Health Institute: il 22% dei lavoratori è in burnout

Il tasso più alto si registra in India (59%) e il più basso in Camerun (9%); l’Italia si ferma al 16%. Tra i dipendenti più colpiti: i giovani della Gen Z e i Millennial
Credit: cottonbro studio 
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2 febbraio 2024 Aggiornato alle 09:05

Secondo il sondaggio del McKinsey Health Institute, condotto su 30.000 dipendenti in 30 Paesi, il 22% dei lavoratori è in burnout, sebbene esistano differenze tra le varie Nazioni prese in analisi. In particolare, i tassi più alti sono stati registrati in India (59%), mentre i più bassi in Camerun (9%); l’Italia si colloca nella parte bassa della classifica con il 16%, nonostante il numero di persone che hanno rivelato di soffrire di esaurimento delle forze e conseguente stanchezza fisica e mentale (43%).

L’Oms ha definito il burnout come “una sindrome concettualizzata come derivante da stress cronico sul posto di lavoro che non è stato gestito con successo. È caratterizzato da tre dimensioni: sentimenti di esaurimento energetico; aumento della distanza mentale dal proprio lavoro, o sentimenti di negativismo o cinismo legati al proprio lavoro; ridotta efficacia professionale. Il burnout si riferisce specificatamente a fenomeni nel contesto lavorativo e non dovrebbe essere applicato per descrivere esperienze in altri ambiti della vita”.

Il burnout si manifesta con sintomi psicologici quali: difficoltà relazionali, stanchezza, frustrazione, demotivazione e difficoltà a portare a termine obiettivi lavorativi o di vita quotidiana; a questi si affiancano quelli fisici: mal di testa, nausea, somatizzazioni diffuse.

Come sottolinea l’amministratore delegato di Mental Health Uk, Brian Dow, questioni globali come il cambiamento climatico e la pervasività dell’intelligenza artificiale, che alimentano «sentimenti di disperazione» potrebbero contribuire al burnout: «Alti livelli di assenze dal lavoro dovute a problemi di salute mentale rappresentano una sfida importante, ma le sue cause sono complesse», ha aggiunto.

«L’atteggiamento e la comprensione del pubblico nei confronti della salute mentale e del lavoro sono cambiati, in particolare perché il luogo di lavoro si è trasformato da un giorno all’altro in risposta alla pandemia. Nel frattempo, viviamo in tempi senza precedenti, e la vita al di fuori del lavoro è diventata sempre più difficile a causa della crisi del costo della vita e delle pressioni sui servizi pubblici, mentre sfide globali come il cambiamento climatico e l’intelligenza artificiale alimentano stress, ansia e sentimenti di disperazione», ha spiegato Dow.

I risultati dell’indagine dell’istituto McKinsey sottolineano come la tendenza sia soprattutto diffusa tra i giovani: l’80% di dipendenti appartenenti alla Gen Z (i nati tra la metà degli anni ‘90 e il 2010) e alla categoria dei Millennial (nati tra gli anni ‘80 e ‘90) sarebbe pronto a lasciare il lavoro, a causa di una cultura aziendale tossica. Un dato che viene confermato da un altro sondaggio, pubblicato su People Management, che evidenzia come i sintomi più elevati si registrino tra dipendenti più giovani, impiegati in aziende di dimensioni ridotte e che non ricoprono posizioni manageriali.

I conflitti interpersonali, la mancanza di chiarezza riguardo a compiti, responsabilità e obiettivi, la pressione legata alle tempistiche e al carico di lavoro possono portare a confusione, stress e scarsa produttività, determinando il burnout dei dipendenti. Le frequenti dimissioni dei giovani rappresentano per il 60% dei talent manager uno dei più grandi ostacoli per la crescita dell’impresa.

In alcuni casi, anche celebri, si è arrivati a mollare tutto. L’anno scorso, l’ex prima ministra neozelandese Jacinda Ardern, che ha ottenuto elogi a livello mondiale per il suo stile di leadership, si è dimessa al culmine della sua popolarità sottolineando che non aveva più abbastanza energia.

Naomi Osaka, tennista giapponese al top della sua forma fisica nel 2021, aveva annunciato proprio in quell’anno di aver bisogno di una pausa a causa del burnout. Simile vicenda anche per Jürgen Klopp, che ha annunciato di volersi dimettere dal ruolo di allenatore del Liverpool a fine stagione. «Come posso dirlo? Sto finendo le energie - ha affermato il tecnico tedesco - Amo ogni cosa di questo club, di questa squadra, di questo team. E sto benissimo, ora. Ma so bene che non posso più fare questo lavoro ancora, ancora e ancora».

Uno scenario con un considerevole impatto (negativo) sull’economia: come evidenziato da Cnbc, il calo della soddisfazione lavorativa registrato dal 2020 a oggi potrebbe impattare sull’economia globale con una perdita di circa 8,8 trilioni di dollari in termini di produttività. Un allarme che riguarda anche il nostro Paese: anche i lavoratori italiani, infatti, sono insoddisfatti e stressati e non ritengono più la carriera come elemento prioritario nella vita, ma puntano a stipendi congrui e al proprio benessere.

In Italia, solo 3 persone su 10 si dichiarano pienamente soddisfatte della propria posizione lavorativa e circa 1 su 2 si sente abbastanza apprezzata e stimata sul posto di lavoro, evidenzia la ricerca dell’agenzia per il lavoro Maw, il cui obiettivo è indagare bisogni, desideri e priorità dei professioni italiani e fornire alle imprese uno strumento utile per affrontare l’aumento del mismatching tra domanda e offerta di lavoro.

In questo contesto, il sondaggio del McKinsey Health Institute ha evidenziato come un ambiente di lavoro positivo consenta invece ai dipendenti di sperimentare un benessere maggiore e di essere più innovativi e performanti nello svolgimento delle proprie mansioni. Tutto ciò trova conferma in un’altra indagine che l’istituto ha condotto insieme a Business in the Community, secondo cui il valore economico del miglioramento del benessere dei dipendenti del Regno Unito, a esempio, potrebbe oscillare tra 130 e 370 miliardi di sterline l’anno (6 - 17% del Pil), che equivale a 4.000 - 12.000 sterline per dipendente.

Un clima aziendale positivo è infatti correlato a fattori come maggiore coinvolgimento nel lavoro e migliore collaborazione tra dipendenti e quindi migliori performance, crescita del senso di appartenenza all’organizzazione, oltre che a una maggiore attrattività dei talenti e di soddisfazione del cliente.

La ricerca di PwC ha evidenziato che in Italia, per ben 4 ceo su 10 la propria azienda non potrà sopravvivere per più di 10 anni senza un processo di trasformazione. Un dato ancor più significativo considerando che questa visione nei confronti del futuro della propria impresa viene condivisa anche dal 25% dei dipendenti e, in particolare, dal 44% dei giovani lavoratori intervistati nel corso dell’indagine.

Intervenire per scongiurare pericoli di burnout e migliorare il benessere psicofisico degli impiegati è dunque non solo una necessità per garantire una migliore qualità di vita sul posto di lavoro, ma è importante anche per le aziende per migliorare il fatturato e la qualità dei servizi e dei beni prodotti in un’ottica di crescita imprenditoriale e di sostenibilità Esg (Economico, Sociale, Governance). Un risultato che farebbe dunque bene a tutti e tutte, dai produttori ai lavoratori.

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