Diritti

Migrazioni e minori: urla silenti di chi non ha voce

Un nuovo report fotografa la situazione, spesso inadeguata, dell’accoglienza dei minori richiedenti asilo in UE e una domanda sorge spontanea: come fare di più e meglio?
Credit: Beth Tate 
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21 gennaio 2024 Aggiornato alle 06:30

È uscito recentemente il report del Cnr Iriss di Napoli e dall’associazione The Thinking Watermill Society, Silent Cries: Research Report on the Need for Increased Protection of Child Asylum Seekers in The European Union.

A cura dell’avvocato Caterina Luciani e sotto la direzione scientifica del Primo Ricercatore del Cnr Iriss, Giovanni Carlo Bruno, indaga il fenomeno della migrazione minorile e la necessità di una maggiore protezione dei minori richiedenti asilo nell’Unione Europea.

La sua peculiarità è data dall’approccio alla tematica, sia sotto il profilo soggettivo sia per la presenza di numerose testimonianze di accademici e professionisti esperti, che rappresentano varie criticità e vulnerabilità. Sotto il profilo soggettivo, è da notare che il corpo dello studio è stato redatto da quattro giuriste e giuristi africani, tre donne e un uomo, con quel distacco che può aiutare a comprendere i fenomeni quando essi si vedono a distanza e senza un proprio coinvolgimento. Si tratta di giovani professionisti affermati e ricordo, ove occorra, che soltanto una parte delle migrazioni che interessano il nostro Paese e l’Unione Europea proviene dall’Africa, mentre quella prevalente arriva da Medio Oriente e Oriente.

Il rapporto mette a fuoco la normativa europea, evidenziando criticità e punti che necessitano una maggiore tutela e, grazie anche all’intervento di Luis Franceschi, deputy assistant general del Commonwealth Of Nations, contiene l’invito agli Stati africani di armonizzare la disciplina dell’accoglienza perché le migrazioni interne assurgono a numeri per noi poco immaginabili.

Basta ricordare che la sola Uganda ha accolto più di 1,5 milioni di sfollati dal Sud Sudan e dalla Repubblica Democratica del Congo per ricordarci che le migrazioni sono un fenomeno globale in tutto il mondo, dove gli Stati Uniti sono il luogo più ambito dai migranti.

Perché lo studio dovrebbe interessarci? I numeri delle migrazioni sono impressionanti se si pensa che l’anno scorso solo in Italia sono sbarcate quasi 160.000 persone. Nel 2021 i Paesi più accoglienti in Unione Europea sono stati Germania, Grecia e Spagna.

Si calcola che nel 2022 ben 42.000 migranti giunti in Unione Europea fossero minori (di cui 22.000 in Grecia e Italia), la maggiore parte non accompagnati: con quali sofferenze e traumi non è facile immaginare perché l’orrore non si comprende se non lo si prova sulla propria pelle, mentre il sistema degli affidamenti mostra i suoi limiti di fronte a numeri così ingenti.

La mancanza di una famiglia in contesti già degradati fa venire meno anche quella che spesso è l’unica istituzione che assicura crescita nonché protezione ai minori. In tale senso, la testimonianza di Hector Franceschi, professore della Pontificia Università della Santa Croce, con un approccio laico, esprime chiaramente la drammaticità delle mancate ricongiunzioni.

Nella fase dell’accoglienza, poi, la burocrazia aggiunge danno al danno - come ben evidenziato nella testimonianza di Cesare Fermi, direttore Intersos - laddove spesso l’iter che coinvolge il minore si conclude quando la persona è ormai maggiorenne.

E come troppo spesso accade, a malasorte si aggiunge altra malasorte: la diffusione di pandemie quali il Covid ad alto tasso di contagio espone infatti, con le vicinanze forzate, i minori, debilitati anche dalla malnutrizione che segna i loro corpi e le aspettative di vita, a un maggiore rischio di contagi.

Lo studio si presta ad alcune mie considerazione personali. La domanda assordante è: cosa fare? La soluzione non è semplice, né quelle che sembrano facili scorciatoie appaiono risolvere i problemi.

Se di fatto i minori costituiscono un gruppo vulnerabile che merita tutela, è facile comprendere che l’accoglienza non può essere fine a se stessa e certo non risolve i problemi se non si elaborano percorsi di sviluppo delle persone e non si considera l’ipotesi di creazione di nuove opportunità nei Paesi di origine, anche attraverso percorsi formativi e delocalizzazioni d’imprese (del resto “se non hai nulla da perdere, ovunque va bene per te” – Spandau Ballet, Through the Barricades).

Il rischio, infatti, è quello di rincorrere le emergenze, che ormai sono la quotidianità, con provvedimenti tanto temporanei quanto illusori: siano essi l’accoglienza indiscriminata o i respingimenti, entrambi volti - al di là dei propositi - solo a spostare in avanti nel tempo problematiche che si riproporranno in maniera più acuta ed esacerbata da lì a poco.

Gli esempi delle banlieue francesi, cui non sono estranee anche molte città belghe e del Regno Unito, con l’esplosione di rabbia degli immigrati di terza o quarta generazione, ma anche i tristi campi libici così come le morti in mare sono tutti davanti a noi e ci dicono chiaramente che nessuno ha trovato una soluzione.

In questo senso, il tentativo del governo italiano di cercare una risposta comune europea al tema generale delle migrazioni è senz’altro meritevole, perché se è vero che chi salva una vita salva il mondo intero, è pure vero che nessuno si salva da solo; eppure non sembra che in questi ultimi vent’anni siano stati fatti veri progressi nel dare una risposta alle richieste di aiuto e nel cercare di assicurare dignità e sviluppo agli accolti, spesso abbandonati ai margini della società, creando e acuendo contrasti con gli emarginati già presenti, italiani e non, in quella che forse è la guerra più atroce: quella tra coloro che sono afflitti dalla povertà.

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