Diritti

Uganda: madri detenute in ospedale per non aver pagato

2 donne hanno sporto denuncia contro Governo, consigli distrettuali e diocesi ecclesiastiche per essere state trattenute dopo il parto: non avevano i soldi per saldare le fatture mediche
Credit: Mustafa Omar
Chiara Manetti
Chiara Manetti giornalista
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23 agosto 2023 Aggiornato alle 13:00

Detenute in ospedale per non aver saldato il conto. È accaduto in Uganda a 2 donne, Akello Esther Susan, 23 anni, e NS (che all’epoca dei fatti era minorenne). Ma non si tratta di un caso isolato: quella di trattenere i pazienti che non possono pagare nelle strutture ospedaliere è una pratica ben consolidata, qui come in altre parti dell’Africa. Stavolta, però, le 2 pazienti hanno deciso di fare congiuntamente causa al Governo, a 2 consigli distrettuali e alle diocesi ecclesiastiche per il trattamento subito dopo aver partorito rispettivamente nel 2020 e nel 2021.

Gli avvocati, racconta il Guardian, sperano che questa causa possa porre fine a una pratica che dura da anni, già denunciata da numerose Ong ugandesi e dalla Initiative for Social and Economic Rights (ISER), organizzazione indipendente e senza scopo di lucro per i diritti economici e sociali nel Paese che ha dichiarato che in alcuni casi è stata riconosciuta la violazione dei diritti umani, ma non è stato preso alcun provvedimento o modificata la legislazione vigente. «Speriamo di ottenere una dichiarazione che attesti che la detenzione delle madri da parte degli ospedali dopo la fornitura di servizi sanitari è illegale, incostituzionale e una violazione delle nostre leggi», ha spiegato la loro legale, Elizabeth Atori.

Le 2 donne in questione hanno avuto complicazioni prima e post parto e, dopo essersi rivolte a degli ospedali governativi gratuiti, sono state indirizzate a cliniche private. In Uganda l’assistenza sanitaria è gratuita, ma i centri possono essere inaccessibili o privi di strutture. Quando le pazienti non hanno potuto pagare il conto, secondo la loro testimonianza, sarebbero state trattenute contro la loro volontà per settimane.

Non è la prima volta che accade: secondo ISER la detenzione dei pazienti è diffusa in Uganda e colpisce in modo sproporzionato le neomamme. Spesso le guardie impediscono di lasciare gli ospedali, rendendo i pazienti veri e propri prigionieri. In alcuni casi, addirittura, a queste persone viene negato il cibo e imposto di svolgere lavori umili, come pulire i reparti, per ripagare i debiti.

Quando NS è entrata in travaglio, nel 2021, aveva 16 anni. L’unico ospedale attrezzato per un cesareo era il St Francis di Nkokonjeru, una struttura senza scopo di lucro gestita dall’Uganda Catholic Medical Bureau, finanziata tra gli altri da USAid, l’agenzia federale statunitense per lo sviluppo internazionale. Per il parto cesareo e il trattamento della sepsi alla donna sono stati addebitati 590.000 scellini ugandesi (l’equivalente di circa 146 euro). Considerando che la metà degli occupati guadagna 200.000 scellini ugandesi (50 euro) o meno al mese, si trattava di una spesa notevole per NS: nemmeno chiedendo aiuto ai parenti è riuscita a raggiungere quella cifra. L’adolescente, già madre di un altro figlio che era a casa, racconta il quotidiano britannico, è stata trattenuta per un mese finché ISER non ha saldato il debito.

Il conto di Akello Esther Susan è stato ancora più salato: 1,45 milioni di scellini ugandesi. Era al sesto mese di gravidanza, in attesa di 2 gemelli, quando è stata ricoverata all’ospedale Kumi di Ongino, gestito dalla diocesi anglicana di Kumi. La struttura si è rifiutata di curarla nonostante avesse una rottura prolungata delle membrane, cosa che metteva a rischio la madre e i bambini. Akello ha richiesto un prestito, ma questo non copriva le spese per il letto, l’ambulanza e la trasfusione di sangue. Secondo quanto riferito al Guardian, a luglio 5 neomamme sarebbero state tenute prigioniere all’ospedale di Kumi per più di 4 settimane.

La ricerca pubblicata nel 2021 da ISER riporta le esperienze di altri e (soprattutto) altre pazienti detenuti negli ospedali. Una neomamma è stata trattenuta per mesi prima di legarsi il bambino alla schiena e arrampicarsi su una scala e poi su un albero per fuggire oltre le mura dell’ospedale. Un’altra donna ha raccontato di essere stata ricoverata al St. Francis di Nkokonjeru nel 2020, ma di aver perso il bambino. Le è stato chiesto di pagare 306.500 scellini ugandesi, “ma non avevo soldi. Mi è stato quindi detto di rimanere in ospedale fino a quando non li avessi recuperati. In quel periodo, però, ho avuto delle complicazioni e ho dovuto essere operata. L’operazione è costata altri 633.000 scellini ugandesi, per un totale di 939.500 scellini”. a oggi il suo debito è di 689.500 scellini ugandesi, circa 170 euro.

«La maggior parte dei casi di detenzione dei pazienti che vengono sottoposti al giudice sono risolti in via extragiudiziale. Questo significa che il tribunale non si pronuncia mai sulla legalità - ha spiegato al Guardian Aruho Amon, avvocato dell’Enforcement of Patients and Health Workers’ Rights - Quello che stiamo cercando è una decisione del tribunale sul diritto alla salute». Nel 2021, l’Alta Corte del Kenya ha dichiarato incostituzionale la detenzione per debiti, pronunciandosi a favore di una donna detenuta in un ospedale di Nairobi. Si spera di ottenere lo stesso risultato in Uganda.

L’Uganda Protestant Medical Bureau, responsabile degli ospedali gestiti da protestanti, non ha voluto commentare mentre è in corso il procedimento legale. Così come le autorità del distretto di Kumi, l’Uganda Catholic Medical Bureau e i 2 ospedali citati. Un portavoce di USAid ha dichiarato: “Ci aspettiamo che i nostri partner garantiscano che i loro sub-partner trattino seriamente ogni accusa, impieghino principi e approcci appropriati e incentrati sui sopravvissuti, e assicurino la responsabilità dei responsabili”.

Lo studio del 2020 pubblicato sull’International Journal of Health Policy and Management rivela che si tratta di una pratica che si verifica in 46 Paesi, tra cui Spagna, Grecia, Messico, Colombia, Cile, India, Cina, Indonesia, Arabia Saudita e Turchia. L’analisi la associa a “corruzione” e “strutture disfunzionali del sistema sanitario”.

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