Storie

Minori stranieri non accompagnati: storie felici di migrazione e volontariato

I bambini che arrivano in Italia senza genitori sono spesso spaesati. È qui che entrano in gioco i tutori volontari, per guidarli nel loro percorso di integrazione, come ha spiegato l’associazione Tutori in Rete a La Svolta
Credit: Katie Moum 
Tempo di lettura 8 min lettura
28 novembre 2023 Aggiornato alle 10:00

La maggior parte delle volte, le storie di immigrazione e migranti sono accompagnate da un filo rosso costante, che riguarda le ingiustizie, le storture del sistema d’accoglienza, il razzismo perpetrato nei confronti di chi arriva. Eppure, capita di entrare a contatto con storie diverse, alimentate dalla speranza e dalla voglia di contribuire alla creazione di un sistema davvero virtuoso.

È il caso di Tutori in Rete, «un’associazione di secondo livello formalmente costituitasi lo scorso giugno al termine di un percorso durato 2 anni, che mette in rete già 17 fra associazioni e gruppi informali di tutori volontari di minori stranieri non accompagnati (Msna) provenienti da 14 diverse Regioni italiane», hanno spiegato a La Svolta i membri del direttivo dell’associazione.

«Ci siamo resi conto che era indispensabile un interlocutore nazionale per essere più incisivi, portare avanti le istanze comuni e anche diffondere le buone prassi sviluppate a livello locale». Lo scopo non è solo intervenire dove ci sono problemi, ma anche mettere a sistema ciò che funziona, nell’interesse dei bambini e delle bambine stranieri/e soli/e e della società.

Per minori stranieri non accompagnati (Msna) si intendono tutte quei bambini che non hanno compiuto la maggiore età e arrivano sulle coste del Mediterraneo, o attraverso la rotta balcanica, senza genitori o parenti prossimi. La figura del tutore volontario per Msna è nata nel 2017 grazie alla cosiddetta Legge Zampa (Legge 47/2017) con lo scopo di supportare la rete di accoglienza già esistente.

Oggi, infatti, il sistema si divide in 2 fasi, quella di prima e seconda accoglienza: non appena il ragazzo o la ragazza arriva in Italia trova rifugio nei centri di prima accoglienza (strutture statali che forniscono un primissimo livello di assistenza e svolgono tutte le operazioni di identificazione, entro 30 giorni); poi si passa alle strutture Sai - Sistema Accoglienza Integrazione, dove inizia il vero e proprio programma di integrazione. E così si comincia a frequentare la scuola, un corso di italiano e si è seguiti da educatori e psicologhe.

Il Sistema d’accoglienza diffusa «ha già dimostrato di essere la forma migliore e andrebbe ampliata – ha spiegato a La Svolta il direttivo dell’associazione – ma ovviamente all’interno della rete ci sono comunità che funzionano meglio, e quindi riescono a rispondere bene ai bisogni dei minori, altre che invece faticano parecchio».

Nello specifico «i punti di forza sono l’adesione su base volontaria da parte dei Comuni, le strutture di piccole dimensioni, la previsione di servizi e strumenti fondamentali per la protezione e l’accompagnamento dei minori, necessari tanto quanto il vitto e l’alloggio, come l’accompagnamento educativo, il supporto psicologico, la consulenza legale, in aggiunta all’accesso alle cure e all’istruzione che sono (dovrebbero essere) garantiti in ogni caso».

Eppure, in Italia ci sono quasi 23.000 ragazzi e ragazze senza famiglia, ma solo 6.000 posti per accoglierli. Un numero del tutto insufficiente. Infatti, esistono «territori ancora del tutto privi di strutture di seconda accoglienza. E questo crea un problema sia per i Comuni, che sono comunque obbligati a garantire adeguata accoglienza a ogni minore solo sul territorio, che (e soprattutto) per i tanti (troppi) minori che vengono accolti anche per lunghi periodi in centri di prima accoglienza, o in centri emergenziali, oppure in strutture per adulti. Per non dire di quelli che rimangono in strada (succede anche questo)».

Infatti, non è raro che ragazzi e ragazze rimangano molto più dei 30 giorni necessari a effettuare i vari accertamenti all’interno dei centri di prima accoglienza, dove di fatto non è garantito loro nulla se non vitto e alloggio. «Tutto ciò ritarda inevitabilmente una presa in carico individuale dei e delle minori sia sotto il profilo della regolarizzazione che dell’avvio di un progetto educativo. Questa grave carenza del sistema appare ancora più grave per i ragazzi 17enni, prossimi alla maggiore età, in quanto rischia di escluderli definitivamente da ogni possibilità di integrazione. Accade anche, purtroppo, che questi ragazzi non riescano neppure a ottenere il permesso di soggiorno per minore età».

Un altro problema riguarda i percorsi di formazione: «Parliamo spesso di integrazione, meglio sarebbe puntare all’inclusione, nel senso di pieno inserimento nel contesto di arrivo senza dover rinunciare alla propria individualità – ha sottolineato il direttivo – Dovremmo essere in grado di garantire a ogni minorenne (straniero o no) pari accesso all’istruzione e alla formazione. Invece l’esigenza di raggiungere in un tempo brevissimo l’autonomia spesso costringe i ragazzi e le ragazze a indirizzarsi verso percorsi di formazione professionale, anteponendo le prospettive lavorative alla crescita personale. Inoltre, accade che i minori stranieri siano di fatto inseriti in un sistema di accoglienza che li isola totalmente dai e dalle coetanei/e italiani/e. Sono ospitati in comunità per sole persone straniere, non di rado fuori dai centri cittadini e spesso frequentano scuole con prevalenza di alunni e alunne stranieri/e. Diventa allora difficile creare occasioni per scambiare con i ragazzi e le ragazze italiane della loro età».

Quasi tutti i minori stranieri non accompagnati che riescono ad arrivare in Italia fuggono ovviamente da situazioni estremamente difficili: guerre, regimi illiberali, povertà, famiglie inesistenti o disgregate. Tra l’altro «oltre al problema della lingua (che devono imparare il prima possibile) difficilmente arrivano con anni di istruzione alle spalle. Alcuni non sono mai andati a scuola o comunque hanno una scolarizzazione minima che rende estremamente difficile se non impossibile il loro inserimento nel nostro ordinamento scolastico, che non dispone degli strumenti e delle risorse necessarie. Anche i corsi di formazione professionale organizzati dai Comuni a volte richiedono un diploma di base che i Msna non hanno. Tutto questo comporta una “non integrazione” con i ragazzi italiani. Un collante potrebbe essere lo sport ma anche qui l’inserimento dei Msna non è semplice».

Per quanto riguarda l’associazione di Tutori in Rete, nonostante il servizio sia rivolto prevalentemente ai minori, «il rapporto che si crea con ragazzi e ragazze è personale, per questo continua in maniera “naturale” anche dopo il compimento del 18° anno, quando viene meno il ruolo di rappresentanza legale; il tutore continua di fatto a rappresentare un riferimento personale importante».

È quello che è successo con Lamin arrivato in Italia quando aveva 13 anni circa. «Subito dopo lo sbarco è stato ricoverato con urgenza in ospedale; appariva assente, e dopo giorni di ricerca gli è stata diagnosticata una forma seria di anemia mediterranea. Con trasfusione e cure adeguate è riuscito a riprendersi anche grazie all’aiuto costante del tutore che lo ha sempre seguito con regolarità e, una volta dimesso, ha sollecitato gli assistenti sociali per inserirlo in una comunità. Durante gli anni in comunità il tutore e la sua famiglia sono diventati un vero e proprio un punto di riferimento per Lamin, in un periodo difficile in cui ha dovuto imparare ad accettare la sua fragilità: non poteva giocare a calcio come i suoi compagni e in generale gli erano vietate molte attività fisiche. Il tutore ha continuato a sostenerlo, seguendolo con regolarità».

«Dopo aver conseguito il diploma di terza media e aver cominciato il primo anno di superiori - hanno raccontato tutori e tutrici - Lamin ha mostrato sempre più interesse per l’elettronica, fin quando, grazie all’aiuto del tutore, è riuscito a inserirsi in un piccolo laboratorio di telefonia. Tutti i suoi sogni sembravano essersi realizzati, ma dopo un po’ di tempo uno zio che risiede ad Hannover, in Germania, lo ha incoraggiato a raggiungerlo. Così Lamin ha salutato il piccolo mondo che si era costruito a Siracusa: è partito la Germania. Oggi vive e lavora ad Hannover come elettricista, sembra essersi ben inserito e mantiene contatti regolari con il tutore e la sua famiglia, che continua a rappresentare quel riferimento affettivo a cui rivolgersi con fiducia nelle decisioni importanti».

E in effetti, come sottolineano le tutrici e i tutori del direttivo «non si diventa “magicamente” grandi e autonomi a 18 anni e un giorno. Al contrario, il passaggio alla maggiore età spesso corrisponde all’uscita dai percorsi di accoglienza; si tratta di un momento difficile, nel quale avere al proprio fianco un adulto può fare la differenza».

Per questo Tutori in rete sta lavorando al riconoscimento anche formale della figura del “tutore sociale”, che accompagna i ragazzi fino ai 21 anni e che è stata già accolta da alcuni Tribunali per i Minorenni: «l’inserimento del nome del tutore nei provvedimenti di prosieguo amministrativo fornisce ufficialità e legittima la nostra permanenza come figura di riferimento nella vita dei nostri tutelati anche dopo la maggiore età».

Nonostante il lavoro di tutte le associazioni e le storie felici che fanno parte del racconto intorno alla migrazione, molte scelte politiche sembrano andare in direzioni opposte. «Purtroppo, il giudizio rispetto a tutte le misure assunte col DL 133/2023 è senza mezzi termini negativo». La legge in questione ha infatti inserito diversi cambiamenti tra cui, per esempio, la possibilità di mandare ragazzi dai 16 anni direttamente nei centri per adulti.

«In generale esprimiamo grande preoccupazione per il grave arretramento sul piano delle tutele previste per i minori stranieri soli che sono prima di tutto minorenni» ha aggiunto Tutori in Rete. Molti problemi riguardano, per esempio, anche le modalità di accertamento dell’età: se con la Legge Zampa si erano fatti dei passi in avanti, con la legge odierna si è tornati a utilizzare solo ed esclusivamente la tecnica della radiografia del polso che si basa su modelli statistici tipici di ragazzi occidentali, che hanno una conformazione fisica diversa da quella di un bambino africano, asiatico o sudamericano.

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