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Immigrazione: il sistema di accoglienza di Trieste è in crisi?

Secondo Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio Italiano di Solidarietà, intervistato da La Svolta, «A ottobre abbiamo assistito a più arrivi e meno trasferimenti. Manca un adeguato programma di redistribuzione»
Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio Italiano di Solidarietà
Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio Italiano di Solidarietà
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24 novembre 2023 Aggiornato alle 09:00

Qualche settimana fa è stato pubblicato il report Vite Abbandonate, prodotto da una rete che unisce varie associazioni che a Trieste operano nell’ambito dell’accoglienza. Infatti, quella triestina (e più in generale quella del Friuli-Venezia Giulia) è una delle situazioni più precarie per quanto riguarda l’immigrazione e, di conseguenza, la vita delle persone migranti.

Il capoluogo friulano rappresenta il primo punto di approdo sicuro dopo la fuga da persecuzioni, guerre, e situazioni di violenza generalizzata in Paesi come l’Afghanistan, il Pakistan, la Siria, l’Iraq dai quali proviene la maggior parte delle persone che percorre la rotta balcanica.

Nel 2022 Trieste ha sperimentato un aumento degli arrivi di persone provenienti soprattutto dall’Asia, che si inserisce all’interno di un più generale aumento dei flussi migratori, che interessano l’intera rotta.

Se nell’ultimo trimestre del 2021 erano arrivate 683 persone, nello stesso periodo del 2022 gli arrivi sono stati poco meno di 6.000. Eppure, di fronte a questo incremento, invece di un potenziamento del sistema d’accoglienza “si è assistito a una risposta assente o discontinua da parte degli attori istituzionali direttamente competenti” si legge nel report.

A Trieste (ma in generale nella Regione) l’accoglienza è gestita quasi esclusivamente grazie all’attività volontaria delle associazioni. Questo accade perché in Italia non esiste un obbligo per i Comuni di aderire al sistema Sai (Sistema accoglienza diffusa) e di conseguenza capita che alcune Regioni abbiano pochissimi posti: il Friuli Venezia Giulia, per esempio, ne ha circa 680.

Inoltre, è necessario sottolineare che la precarietà di questa situazione ha radici lontane, negli anni passati: da maggio 2020 sono stati, infatti, ridotti i servizi a bassa soglia per le persone non residenti; il 27 maggio 2020 si è interrotta, per volontà del Comune di Trieste, l’attività dell’Help Center all’interno della stazione ferroviaria, un servizio che dal 1° gennaio 2018 aveva assistito 21.500 persone. Ma non solo: nello stesso periodo è stata ridotta l’attività del centro Diurno di via Udine della Comunità di S. Martino al campo.

Tutto ciò ha determinato l’abbandono di migliaia di persone e il conseguente aumento delle situazioni di degrado urbano. Per mettere a fuoco la situazione triestina e capire meglio le problematiche che le persone sono costrette ad affrontare, La Svolta ha intervistato Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio Italiano di Solidarietà, ex vice presidente dell’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (Asgi).

Quante persone migranti può ospitare Trieste?

Ovviamente bisogna sempre distinguere tra due sistemi, quello di prima e seconda accoglienza, la cosiddetta accoglienza diffusa. Nello specifico Trieste rappresenta un modello molto positivo rispetto all’accoglienza diffusa, appunto, perché qui non esistono centri, ma solo case dove le persone vengono accolte e complessivamente ci sono più di 1.000 posti. Ma è chiaro che il sistema non è mai stato solo questo perché Trieste rappresenta un vero e proprio snodo e qui arrivano moltissime persone, per questo esistono anche dei centri collettivi. Soprattutto a ottobre abbiamo assistito a sempre più arrivi e sempre meno trasferimenti, e ovviamente il sistema locale, per quanto efficiente, non può esaurire tutta questa domanda. Il sistema però, sta vivendo una gravissima crisi e il problema riguarda soprattutto la mancanza di un adeguato programma di redistribuzione. Il sistema locale, infatti, è un sistema abbastanza stabile: questo significa che, se una persona entra, uscirà dopo molto tempo, anche diversi anni, determinando un turn over abbastanza limitato.

E quante persone migranti ci sono a Trieste?

Siamo riusciti a mettere in piedi un’organizzazione molto precisa, per portare avanti un attento monitoraggio della situazione, con una doppia finalità: da una parte assistere le persone e dall’altra mettere in luce il fenomeno con tutte le gravissime disfunzioni del sistema. Per questo abbiamo una precisa contezza, direi quasi quotidiana, delle persone che ci sono, soprattutto quelle richiedenti asilo. Abbiamo addirittura le liste con i nomi di chi arriva e il giorno della domanda di asilo. Per esempio, il 3 ottobre registrava una situazione molto grave: 255 persone senza accoglienza. Nello specifico il mese di ottobre è stato molto difficile perché non c’è stato praticamente nessun trasferimento nel resto del territorio nazionale, di conseguenza circa 400 persone richiedenti asilo si sono trovate senza un posto dove stare. Ovviamente a questi dati si aggiunge un dato meno preciso che riguarda le persone in transito, ma facendo una stima si tratta di circa quaranta persone al giorno. Ovviamente se queste persone non si rivolgono a nessuno dei nostri servizi è come se fossero invisibili.

Dunque, quest’ estate il numero degli arrivi è effettivamente aumentato?

Si, un aumento si è registrato: consideri che fino a settembre abbiamo intercettato circa 14.000 persone, il numero complessivo di chi è arrivato durante tutto il 2022.

Quindi ritiene che si sta attraversando una fase emergenziale?

In realtà no. Nonostante tutto, infatti, il numero di arrivi è comunque modesto, il problema è che non ci sono gli strumenti adeguati. Per questo noi abbiamo sempre utilizzato il termine di “emergenza artificiale”, perché nessuno che ha contezza del fenomeno può affermare che 40 o 50 arrivi al giorno, di cui quasi tutti in transito, rappresentino un problema. Se lo Stato italiano parla di emergenza c’è qualcosa di patologico e nel caso di Trieste lo si vede in maniera evidentissima: una situazione di assoluta gestibilità è stata trasformata in un’emergenza.

Le persone che non hanno posto dove stare dove vanno?

Diciamo che hanno 3 possibilità. La prima è anche quella più gettonata: la maggior parte delle persone si accampa nei magazzini del porto vecchio austriaco, proprio vicino alla stazione centrale. Qui ci sono enormi spazi che vengono chiamati “Silos”, gli ex-magazzini per i depositi delle merci. E almeno la metà di queste 400 persone sta lì in condizioni semplicemente incredibili. Un’altra quota trova soluzioni un po’ più adeguate ma sempre informali, da reti di conoscenti e anche da persone che fanno veri e propri affari; un’altra parte ancora, invece, va a vivere da conoscenti anche fuori Trieste e, rimanendo in contatto telefonico con qualcuno o direttamente con il nostro servizio, può presumere quando arriverà il suo turno all’interno di un centro di accoglienza.

Per questo abbiamo un flusso di ritorno, anche se purtroppo spesso capita che molte persone arrivino il giorno sbagliato. L’emergenza artificiale ha 2 obiettivi: da una parte quello di spingere le persone ad andarsene e chiaramente, all’interno di questa strategia illegale, c’è un certo tasso di successo; il secondo obiettivo è quello di far percepire all’opinione pubblica una situazione di disagio e ingestibilità che le persone, non avendo gli elementi per analizzare il fenomeno, attribuiscono alla mancanza di posti o al numero spropositato di arrivi.

A Trieste e in Friuli-Venezia Giulia la maggior parte dei migranti arriva attraverso la rotta balcanica. Ci può spiegare come funziona e quali sono i principali Paesi di provenienza di queste persone?

La rotta è prevalentemente terrestre anche se comunque si attraversa una parte di mare, più precisamente l’Egeo. L’ingresso avviene quasi sempre in Grecia, anche se ultimamente è sempre più comune arrivare attraverso la Bulgaria. Si tratta di una rotta fatta, però, di tante vie in realtà: c’è chi passa dalla Macedonia del Nord, passando per la Serbia, la Croazia e infine la Slovenia; chi invece passa dalla Bulgaria per poi giungere in Serbia e continuare il viaggio, ma è interessante notare che ci sono anche transiti dall’Ungheria, nonostante tutto. A volte invece si passa direttamente dalla Serbia alla Croazia, senza passare per la Bosnia. Per quanto riguarda la Bosnia io credo rimanga comunque uno snodo fondamentale, ma nel corso dell’ultimo anno e mezzo ha abbastanza oscillato; si tratta, infatti dell’area meno abitata e più boscosa, dove tutto sommato si passa abbastanza facilmente.

La maggior parte delle persone proviene dall’Afghanistan, circa i tre quarti del totale; mentre gli altri arrivano soprattutto dal Pakistan, dal Bangladesh, dal Kurdistan turco e dall’Iraq. Comunque, provengono quasi tutti dal Sud Ovest asiatico, ma la cosa che colpisce è che la stragrande maggioranza è originaria dell’Afghanistan; tra l’altro si tratta quasi sempre di ragazzi giovanissimi, spesso minori non accompagnati o comunque persone che hanno affrontato il viaggio quando erano minori. Nello specifico l’arco anagrafico maggiore va dai 16 ai 26 anni. Sopra i 26 anni sono considerati anziani rispetto a chi arriva.

Secondo lei la sospensione degli accordi di Schengen ha avuto qualche impatto sulle migrazioni e cosa prevede per il futuro?

Ha avuto un impatto nella misura in cui il ripristino dei controlli alle frontiere interne sia stato preceduto da un grande inasprimento dei controlli alle frontiere esterne, soprattutto quella al confine croato-bosniaco. Sono ricominciati i respingimenti, ma soprattutto le violenze; tutto ciò era in atto già da 2 mesi e ha rappresentato una sorta di annuncio. Ovviamente si tratta di una procedura che per forza di cose ostacola il transito delle persone, rende più facile agire respingimenti illegali e anche per quanto riguarda l’Italia stiamo indagando la natura dei 220 avvenuti a inizio novembre. La maggior parte dei respingimenti sono illegali, perché sul piano giuridico il ripristino dei controlli alle frontiere interne non dovrebbe in nessun modo incidere sui richiedenti asilo; anzi, se vuole, paradossalmente dovrebbe rendere il sistema ancora più rigoroso e formale. Anche in questo caso si tratta di uno strumento mediatico pensato appositamente per alzare il livello della tensione.

C’è qualche storia che le è rimasta particolarmente impressa?

Purtroppo, sono tutte storie molto simili che, proprio per questo, rimangono fotografate nella memoria, ma non sempre singolarmente. Anche se conosco molte persone, e io stesso ne ospito qualcuna, quello che colpisce è che si tratta in tutti i casi di condizione di viaggio e di scelte la cui drammaticità non riusciamo a comprendere. Noi, un ragazzo di 15 anni lo accompagniamo ancora a scuola, se non torna a casa dopo mezz’ora siamo subito in allerta; pensare che gli stessi ragazzi di 15 anni affrontino un viaggio del genere da soli, senza risorse, dovendo percorrere circa 15.000 km a piedi e attraversare anche 10 confini, sapendo che potranno morire di fame o di sete, essere uccisi o violentati è difficile, se non impossibile, anche solo da immaginare.

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