Diritti

Si muore ancora di disturbi alimentari: è tempo di intervenire

Il Movimento Lilla è sceso in piazza per chiedere allo Stato più attenzione verso queste patologie: «Molte persone che non sono riuscite a curarsi, oggi non ci sono più», ha spiegato a La Svolta l’associazione Animenta
Credit: Anete Lusina

«Non è solo una questione di corpo e cibo, eppure rappresentiamo i disturbi alimentari sempre e solo attraverso questi due elementi», spiega a La Svolta Aurora Caporossi fondatrice dell’associazione Animenta che si occupa di queste problematiche.

I disturbi alimentari sono una questione importante e sfaccettata, alla quale il sistema sanitario dovrebbe dare più attenzione. Il Movimento Lilla, del quale Animenta fa parte, è sceso in piazza il 9 novembre per inviare messaggi chiari allo Stato: di Dca (Disturbi del comportamento alimentare) si può morire se non si accede alle cure, le liste d’attesa sono troppo lunghe e il servizio sanitario nazionale deve prendersi in carico maggiormente questi pazienti.

Perché riconoscere i DCA come malattie a sé stanti

I disturbi del comportamento alimentare sono inclusi nel registro delle malattie psichiatriche e, in Italia, trattati come tali: questo significa che chi ne soffre dovrebbe ricevere i trattamenti previsti in questi casi, che a loro volta rientrano nei livelli essenziali di assistenza (Lea). Ma questo non basta.

Prima di tutto, a fronte del numero di persone interessate, le risorse messe a disposizione per i Dca sono ritenute insufficienti. Secondo i dati ReNCam (Registro Nominativo Cause Morte), sono circa 4000 all’anno i decessi connessi ai Dca. «In molti casi, muore chi non è riuscito a curarsi in tempo».

Le associazioni che si occupano di questo tema denunciano da tempo liste d’attesa, tempi lunghi e carenza di professionisti adeguati. Per questo la richiesta è molto specifica: lo Stato riconosca i disturbi alimentari come malattie a sé stanti. Questo passo sul lato tecnico istituirebbe un percorso autonomo all’interno del Sistema Sanitario Nazionale, dando la possibilità, in primis, di destinare maggiori fondi.

Oltre a questo, permane poi una questione che riguarda la problematica in sé: «Pur trattandosi di malattie psichiatriche, non bisogna svalutare l’impatto sull’organismo che queste hanno, anzi è necessario incorporarlo nei trattamenti», spiega Caporossi.

L’origine multifattoriale (concorrono cause biologiche, psicologiche, sociali) è una peculiarità di questi disturbi ma è tenuta in scarsa considerazione quando si progettano cure. «Per un trattamento efficace però servono equipe multidisciplinari ed è necessario garantire tutti i cinque livelli di assistenza. Ricoverare una persona in psichiatria generica non si può ritenere un buon trattamento».

Per curare un disturbo alimentare sono previsti cinque livelli diversi di assistenza: medicina generale o pediatra; ambulatorio; centro diurno; residenza; ricoveri ospedalieri. Purtroppo, la maggior parte delle regioni non li assicura tutti. Questo vuol dire che le persone spesso sono costrette a viaggiare verso altre regioni e, quando non possono farlo, rinunciano alle cure. Secondo quanto riportato dal database in aggiornamento dell’Istituto Superiore di Sanità, in Italia sono solo due i centri che offrono tutte le tipologie di assistenza, quelli di Bolzano e Bergamo. In tutte le altre province e regioni, si verificano mancanze più o meno estese nella copertura dei trattamenti.

Oltre ai livelli di assistenza è importante avere equipe adeguatamente formate e multidisciplinari, che dovrebbero includere psicologo, psichiatra, dietista, dietologo, educatore etc.

Le cure sono un privilegio

«Molte persone che non sono riuscite a curarsi, oggi non ci sono più - racconta Caporossi. - Ma è possibile uscire dai Dca, se assicuriamo a chi ne ha bisogno l’opportunità di ricevere cure adeguate». Oggi però accedervi è ancora un privilegio perché «sull’onda della privatizzazione della sanità, viene colpito anche il trattamento dei Dca».

Chi non può curarsi nella propria regione ha tre possibilità: spostarsi, rivolgersi a centri privati, oppure rinunciare alle cure. Nella maggior parte dei casi l’opzione scelta dipende dalla disponibilità economica visto che sia nel pubblico sia nel privato i costi possono arrivare alle migliaia di euro.

Molti centri, poi, non hanno la possibilità di accogliere casi in fase acuta, così tanti ragazzi e ragazze sono rimandati a casa perché “troppo gravi”. Altre volte, può capitare che persone non vengono ammesse perché “non abbastanza gravi”.

La cura poi, quando c’è, arriva sempre dopo attese estenuanti: a oggi le liste d’attesa sono di 6 mesi o un anno, perché le strutture non sono abbastanza grandi o non ci sono sufficienti professionisti.

Come recita uno striscione portato in piazza il 9 novembre, però, i Dca non hanno tempo e anche solo un mese di ritardo nell’intervento può dimostrarsi letale.

I disturbi alimentari nel sistema sanitario

Per far sì che tutte le persone abbiano accesso alla cura, il Movimento Lilla negli ultimi anni si è speso enormemente. «Eravamo scesi in piazza già l’8 ottobre 2021 per chiedere che i disturbi alimentari venissero scorporati nei Lea, con un budget autonomo». Questo permetterebbe di dotare tutte le regioni di fondi necessari per assicurare i livelli minimi di assistenza.

Nella legge di bilancio del 2021 erano già stati stanziati 25 milioni per il biennio successivo. «Adesso, alla conclusione del 2023, non sappiamo se la somma verrà rinnovata».

Ma invece di bonus e somme destinate una tantum, queste associazioni chiedono un decreto attuativo che istituisca un budget autonomo per far fronte ai disturbi alimentari in modo strutturato.

Altro ambito su cui intervenire è l’uniformità delle risorse e delle pratiche a livello nazionale, per non riprodurre disparità legate alla geografia e al reddito. L’obiettivo è arrivare in ogni parte d’Italia e permettere a tutte le persone, ovunque risiedano, di accedere alle cure. Inoltre, come effetto dell’aumento di fondi, anche la quantità di esenzioni verrebbe incrementata, mettendo fine all’equivalenza tra cure per i DCA e privilegio.

Infine, la richiesta trasversale è di curare meglio l’educazione, perché sia inclusiva e di supporto.

Raccontare i disturbi alimentari oltre gli stereotipi

Quella della narrazione e della rappresentazione corretta è una battaglia ugualmente importante. Per Caporossi, è necessario abbattere gli stereotipi legati ai Dca. «La figura comunemente associata al disturbo alimentare è femminile, etero, in età adolescenziale, con aspetto emaciato».

Ma, se da un lato questi disturbi non vanno estetizzati, dall’altro bisogna considerare tutte le persone che ne soffrono e che non vengono rappresentate.

Oltre a mancare di inclusività, una scarsa consapevolezza rallenta le diagnosi: chi soffre di un Dca e non corrisponde allo stereotipo, fatica a riconoscere il disturbo e a chiedere aiuto.

Anche parlare in maniera ampia di tutto lo spettro dei disturbi e dei loro sintomi, è fondamentale. Se la forma più conosciuta è quella dell’anoressia nervosa, i dati di Anad (l’organizzazione che monitora a livello internazionale i Dca) mostrano che di tutte le persone affette da disturbo alimentare, solo il 6-10% è sottopeso.

Come si realizza quindi una comunicazione efficace, inclusiva e non violenta sui Dca? Per Animenta, che ha sviluppato una strategia in questa direzione, bisogna evitare la vergogna e non far sentire sminuite le persone, ma includerle nella narrazione. Poi smettere di demonizzare il cibo e iniziare a parlare apertamente di salute mentale. «I Dca non riguardano strettamente il cibo, ma quello che il cibo diventa in relazione alle emozioni». Quindi, a una narrazione dominante fatta di alimenti, forza di volontà e “mangiar sano”, bisognerebbe contrapporre un più forte dialogo sulle proprie emozioni, sul rapporto con gli altri e sul proprio ruolo nel mondo.

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