Diritti

Non basta eliminare siti per combattere disturbi alimentari

Spesso i pazienti con Dca visitano pagine Pro-Ana, luoghi considerati “porti sicuri” in cui rifugiarsi. Oscurarle non è la via giusta: servono azioni che favoriscano diagnosi precoci e strutture di cura
Credit: KoolShooters
Tempo di lettura 4 min lettura
31 marzo 2023 Aggiornato alle 06:30

È di questi giorni la proposta di legge di Fdl, portata avanti dal Senatore Balboni, riguardo l’introduzione del reato di istigazione all’anoressia e bulimia, a partire dalle migliaia di siti, gruppi Whatsapp, pagine Instagram e profili TikTok, che in modi molto diversi diventano luoghi di diffusione di comportamenti a rischio, soprattutto nella fascia preadolescenziale, quella più colpita in questo momento dalla patologia alimentare.

Non è la prima volta che si prova a contrastare con proposte di legge questo terribile problema. Lo aveva fatto Beatrice Lorenzin nel 2008, mentre nel 2014 Michela Marzano aveva proposto una estensione del reato di incitamento al suicidio (articolo 580), includendo anche l’istigazione all’anoressia; nel 2017 la senatrice Mariella Rizzotti aveva portato avanti una nuova proposta (molto articolata) relativo allo stesso tema. Tutte queste proposte si sono arenate, per molte ragioni.

Mi sono occupata di questo tema nel mio libro, in uscita in questi giorni per Il Pensiero Scientifico, dal titolo Social Fame. Adolescenza, Social media e disturbi alimentari (18 euro, 304 pagine).

Sicuramente l’abbassamento dell’età di esordio dei disordini alimentari è collegato a diversi fattori di rischio, tra cui quelli culturali che oggi sono in prevalenza rappresentati da social media, visto che la fascia maggiormente colpita è quella nativa digitale. È indubbio che l’esposizione a questi elementi di rischio può, in concomitanza con altri fattori (traumatici, familiari, psicologici) favorire l’insorgenza delle patologie.

I social network riescono ad avere un impatto enorme (se non addirittura maggiore rispetto ai classici media) sulle menti dei più giovani; teniamo conto che oggi, secondo i dati del Ministero della Salute, il 30% dei disordini alimentari riguarda pazienti sotto i 14 anni, con esordi frequentissimi sotto i 10 anni. L’80% di questi giovanissimi pazienti ha visitato siti Pro-Ana, comunità Whatsapp, pagine Instagram e profili TikTok dedicati a diffusione di queste patologie come scelte di vita, quasi come modello di vita.

Fermo restando che sia necessario intervenire con azioni di contrasto per la pericolosità di queste forme comunicative distorte, la questione non è cosi semplice.

La maggior parte delle community, infatti, non sono create da pazzi fanatici bensì da pazienti, spesso minorenni, essi stessi sofferenti, in quella fase acuta della patologia dove è completamente assente la consapevolezza della malattia. Dove forse, più che punire, andrebbe favorita una presa di coscienza della patologia e una cura adeguata.

È sufficiente fare un viaggio attraverso le immagini di Instagram o i video di TikTok per accorgersi dei modelli che vengono proposti, con corpi rarefatti che le stesse pazienti esibiscono come un trofeo. Queste foto sono molto visualizzate e sono fonte di imitazione e competizione, meccanismi che sappiamo essere estremamente rinforzanti per questa fascia di età.

Nel 2012 Instagram decise di “bannare” una serie di hashtag (collegamenti esterni al proprio profilo tramite l’utilizzo di apposite etichette) pro anoressia e bulimia: il risultato ottenuto è stato, però, l’incremento del 30% nella creazione di nuovi.

Purtroppo non è la censura il modo migliore per combattere questo fenomeno. Non bisogna dimenticare che si tratta di soggetti che nel bene o ne male, hanno bisogno di “un luogo”, soggetti che si sentono soli nel problema, non hanno nessuno con cui condividerlo e, per usare una metafora: se chiudiamo la porta di quella casa, questo non risolverà il problema di fondo, che è il bisogno di questi utenti di trovare un altro “luogo sicuro”. Perché, per quanto a noi possa apparire malato e disfunzionale, per loro determina un senso di appartenenza e identità.

È necessario dunque, accanto ad azioni di contrasto istituzionali, affiancare azioni che favoriscano l’intercettazione precoce di questi disturbi, che purtroppo arrivano ancora troppo tardi alle cure, spesso per mancanza di strutture specializzate. Ricordiamo che la metà delle strutture italiane non ha una rete completa di assistenza e questo determina spesso un ritardo o addirittura una assenza di cure drammatica.

Accanto a un aumento del dato epidemiologico, soprattutto dopo il periodo Covid, che in questo momento vede, secondo l’ultima rilevazione del Ministero della salute, circa 3 milioni di persone ammalate di disturbi alimentari e 3.470 decessi collegati a queste patologie nel 2022. Una epidemia sociale, dunque, che va affrontata con misure di contrasto ma, allo stesso tempo, con azioni di miglioramento della assistenza in tutto il territorio nazionale.

Leggi anche
Aurora Caporossi, fondatrice e presidente di Animenta
Disturbi alimentari
di Maria Zanghì 9 min lettura
discriminazioni
di Caterina Tarquini 3 min lettura