Ambiente

Un giorno nella comunità indigena degli Ukuy Wasi

Vivono come un’unica, grande famiglia nella parte ecuadoriana dell’Amazzonia, minacciata dalla deforestazione. Aprendosi al progresso ma mantenendo un rapporto di rispetto con gli elementi naturali
Julian, guida indigena, sciamano e capofamiglia della comunità degli Ukuy Wasi
Julian, guida indigena, sciamano e capofamiglia della comunità degli Ukuy Wasi Credit: Camilla Leonardi 
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19 ottobre 2023 Aggiornato alle 19:00

Se anche deve trascorrere diversi giorni nella foresta, Julian preferisce viaggiare leggero e portare una sola cosa: il suo machete.

Non gli occorrono acqua, cibo, medicine, una tenda: «Tutto quello di cui ho bisogno - dice, roteando il lungo coltello per farsi largo tra la vegetazione - lo trovo dentro la selva», come da queste parti gli indigeni chiamano la Foresta Amazzonica.

Siamo nella zona centro-orientale dell’Ecuador, agli inizi dell’immensa foresta pluviale e a 30 chilometri da El Puyo, l’ultimo avamposto per i viaggiatori diretti verso l’ignoto della selva.

La zona amazzonica occupa circa il 50% della superficie dell’Ecuador, nonostante nel ‘900 il Paese abbia subito diverse perdite territoriali, che l’hanno di fatto privato di un accesso diretto al Rio delle Amazzoni.

La vegetazione è tanto impenetrabile che in quest’area molto vasta vivono solamente 5 abitanti per chilometro quadrato.

Tra loro c’è Julian, 55 anni, guida indigena, sciamano, padre di nove figli e capofamiglia della comunità degli Ukuy Wasi. «Significa casa di formiche in quichua (il principale dialetto ecuadoriano, ndr), perché lavoriamo e collaboriamo tutti insieme, come loro», ci racconta, indicando un gruppo di formiche che, sotto i nostri piedi, trasportano in fila indiana dei pezzettini di foglie.

Gli Ukuy Wasi sono circa 80, tutti imparentati tra loro, e vivono in un piccolo villaggio affacciato sul fiume Puyo.

Dormono divisi in capanne costruite in legno su palafitte, con il tetto di paglia o in lamiera, ma hanno un’unica cucina, dove giganteschi pentoloni gorgogliano costantemente sul fuoco, cuocendo chili di patate, di yucca, di riso.

A qualcuno questa vita semplice e di condivisione va stretta, ma pochissimi escono dalla comunità, perché è difficile trovare altrove il sostegno reciproco che esiste qui, una dimensione collettiva oggi forse sconosciuta in Occidente. Tantissimi bambini e bambine si muovono a piedi scalzi tra le galline, fanno il bagno nel fiume, pescano, giocano a calcio tutti insieme, i più grandi sempre con un occhio premuroso verso i piccolini.

Era molto piccolo anche Julian quando ha imparato a muoversi nella foresta, guidato soprattutto dai suoi nonni.

Sia loro sia i suoi genitori sono cresciuti da selvaggi, come vengono dispregiativamente indicati quegli indigeni che non hanno contatti con il mondo esterno (ne esistono ancora in Ecuador, come la tribù degli Shuar).

Oggi invece Julian e la sua famiglia hanno in parte abbracciato la globalizzazione: hanno lo smartphone, anche se a casa non arriva il segnale, ospitano visitatori stranieri nelle loro capanne dedicate al turismo comunitario, indossano magliette di squadre di calcio europee. Quello che hanno mantenuto dei loro antenati, però, è la conoscenza e la sintonia profonda con gli elementi naturali. Il fiume, gli alberi, le rocce sono una parte fondamentale della vita degli Ukuy Wasi.

Grazie agli insegnamenti dei nonni, Julian conosce le proprietà medicinali delle piante, sa quali foglie masticare per farsi passare il mal di testa e quali infondere con l’acqua bollente per lenire il mal di stomaco.

Se ha bisogno di acqua, la beve direttamente succhiandola da alcune liane, mentre per nutrirsi ci sono le radici, i frutti, le formiche giganti, da grigliare o da mangiare direttamente crude, ancora vive.

In certe occasioni, come i giorni attorno al 22 dicembre, Julian va con altri uomini a caccia di animali selvatici per celebrare il solstizio e l’unione della gente con la foresta.

Mentre camminiamo verso la Cascada Escondida, un gioiello lontano due ore di cammino dal villaggio, Julian si ferma davanti a un albero e, dopo averlo osservato per testare il potenziale, in cinque minuti trasforma un tronco in una ventina di proiettili affilati e levigati per la sua cerbottana.

Con l’aiuto, chiaramente, del suo machete, con cui ha un rapporto simbiotico simile a quello di un occidentale con lo smartphone: «Qui bambini prendono per la prima volta il machete quando nemmeno parlano, a otto, dieci mesi. A quattro anni sanno già usarlo bene».

Il suo tagliare un albero non ha niente a che vedere con quello intensivo delle multinazionali dell’allevamento, del fossile e del legname.

Il capofamiglia degli Ukuy Wasi conosce la foresta, i suoi ritmi e le sue debolezze, sa cosa prendere senza alterare la sua armonia.

Ai grandi gruppi industriali, non molto diversi dai colonizzatori che dal ‘500 hanno occupato l’Ecuador e tutto il Sud America, interessa invece solo la corsa cieca e inarrestabile verso il profitto, anche a costo di distruggere un ambiente straordinariamente ricco di biodiversità e cruciale per l’equilibrio climatico e biologico del pianeta.

«La selva non è la stessa di quando ero piccolo. Di là - dice Julian, indicando il lato dalla parte opposta della strada che divide in due la foresta - hanno abbattuto tantissimi alberi, soprattutto per fare spazio alle vacche».

L’allevamento del resto è responsabile dell’80% circa della deforestazione dell’Amazzonia, che nel 2022 ha perso oltre 10,5 milioni di metri quadrati di foresta, anche per via degli effetti della crisi climatica, prima fra tutti l’aumentata frequenza degli incendi.

Per fortuna di Julian e degli Ukuy Wasi (ma anche di tutti noi), lo scorso agosto gli abitanti dell’Ecuador hanno votato NO a un referendum in cui si chiedeva loro di esprimersi sulla possibilità di sfruttare dei giacimenti petroliferi nel Parco Nazionale Yasuni, nell’Amazzonia ecuadoriana. La vittoria non mette certo fine allo sfruttamento della foresta, ma segna un punto a favore di chi ha a cuore quell’ambiente, prime fra tutte proprio le comunità indigene.

Alla sera c’è fermento nel villaggio, perché la squadra dei ragazzi della comunità deve giocare, nella cittadina di Pomona, una partita di calcio a cinque valida per l’omonima Copa Pomona.

La partecipazione degli Ukuy Wasi è totale: tutti seguono la squadra.

Madri, padri, figli, sorelle e fratelli si stipano nei pick-up, anche in 15 per macchina, per andare al campo tutti insieme, i bimbi in braccio agli adulti, i ragazzi dietro, in piedi sul cassone; anche noi visitatori stranieri siamo invitati a questa festa.

Julian e sua moglie Clara scendono al campo con un pentolone gigante di riso e due taniche di succo di frutta fresca. Ne hanno per tutti gli spettatori e i giocatori presenti, anche per gli avversari.

Gli Ukuy Wasi indossano delle magliette del Paris Saint-Germain modificate, la scritta Ukuy Wasi che sovrasta la Tour Eiffel nel logo.

Dalla terrazza panoramica affacciata sul campo si ammira il rosa brillante del tramonto scontrarsi con il verde scurissimo, quasi nero della foresta mentre la luna, con lo spicchio illuminato in basso e il tondo dietro in trasparenza, disegna quasi uno smile nel cielo, sorridendo alla meraviglia di questa natura.

Sorridono anche gli Ukuy Wasi, troppo forti per la squadra di poliziotti di El Puyo, spazzata via col punteggio finale di 10 a 5. Sono imbattuti dopo sei partite: ancora due successi, e vinceranno il torneo. Perdere non sembra un’opzione soprattutto per le donne Ukuy Wasi, che in tribuna accompagnano ogni azione con un trasporto da ultras, mentre allattano i bambini o danno loro biberon pieni di succo di frutta.

Julian, proteso a bordo campo, commenta orgoglioso il successo dei suoi prima di saltare la recinzione per partecipare alla foto di squadra: «Sono bravi, si divertono. Qui non guardiamo il calcio europeo, giochiamo e basta», a conferma di questa sospensione tra desiderio di aprirsi al mondo globalizzato e voglia di restare fedeli alle proprie origini, a un mondo con al centro il legame con la famiglia e con la terra che, almeno visto dall’esterno, appare felice e in pace con se stesso.

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