Ambiente

Arriva a Milano il primo congresso mondiale per la giustizia climatica

Dal 12 al 15 ottobre, riunirà 200 attiviste e attivisti per definire un’agenda sul clima ed elaborare soluzioni anti-fossili. Caterina Orsenigo, parte del comitato organizzativo, ha raccontato i dettagli a La Svolta
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11 ottobre 2023 Aggiornato alle 14:00

Congresso mondiale per la giustizia climatica: idee, strategie, esperimenti su larga scala” è il titolo dell’evento, il primo nel suo genere, in programma a Milano dal 12 al 15 ottobre 2023.

Ospitato dall’Università Statale e in parte dallo Spazio Pubblico Autogestito Leoncavallo, riunirà oltre 200 attiviste e attivisti provenienti dai principali movimenti di tutti i continenti.

L’obiettivo è definire un’agenda ed elaborare strategie trasversali contro il cosiddetto capitalismo fossile: “La minaccia posta alle società umane dalla crescita incontrollata non è mai stata così grande”. A conferma dell’emergenza che viviamo, il testo della “call” transnazionale cita esempi come la siccità record in Europa e l’alluvione in Pakistan.

La ricerca di soluzioni, al motto “Amore e Rivoluzione!”, si muoverà lungo i solchi segnati da alcune parole chiave: “Modalità alternative nella generazione di energia e nella produzione e nel consumo di cibo, accesso universale al reddito, alla salute e alla casa, all’informazione e alla conoscenza: la cultura di un nuovo ambiente e una nuova società per le/i molti che sono precari/e, non per i pochi ricchi del globo proiettati alla conquista dello spazio”.

La lista dei movimenti che sostengono il Congresso (Wccj), da Ultima Generazione a Fridays for Future Milano, è in continuo aggiornamento. L’evento si aprirà giovedì 12 ottobre con i primi incontri e proseguirà venerdì 13 con i seminari aperti.

Sabato 14 sarà la giornata delle riunioni tematiche con i 200 delegati, mentre domenica 15 si terrà un’assemblea plenaria conclusiva. È possibile sostenere l’organizzazione del Wccj aderendo al crowdfunding online.

Caterina Orsenigo, giornalista ambientale e parte del comitato organizzativo, ne ha spiegato a La Svolta.

Come nasce l’idea di creare il primo congresso mondiale per la giustizia climatica?

Wccj nasce dall’esigenza di creare un fronte comune dell’anticapitalismo verde. Le ultime estati sono state molto dure, con eventi estremi che hanno colpito ogni angolo del Pianeta. La risposta della politica va sempre più verso la repressione. Gli ecologisti ora vengono definiti terroristi, è successo in Francia con Soulevements de la Terre, sta arrivando anche qui. Altrove è sempre stata molto forte, ricordiamo che negli ultimi 10 anni gli attivisti per l’ambiente uccisi sono stati più di 1.700.

Come se non bastasse, la prossima Cop28 si terrà a Dubai, letteralmente nella tana del lupo fossile. Del resto, al di là delle parole, dappertutto si continua a investire nel fossile. Davanti a tutto questo, diventa necessario e urgente creare alleanze, condividere saperi e pratiche. E soprattutto, soprattutto decentralizzarsi. La crisi climatica non è uguale per tutti. Ci sono zone del mondo in cui si pagano le conseguenze più dure, classi sociali che la subiscono più profondamente. Bisogna partire da lì. E questo vuol dire che l’ecologismo “bianco”, depoliticizzato, non ha più senso. C’è da capire da che parte si vuole stare. Vogliamo arrivare alla fine del congresso con un documento in cui si fissino dei punti comuni, magari il testimone da passare a qualcun altro, delle strategie comuni per i prossimi mesi. E lo faremo confrontandoci con movimenti come Ende Gaelende, Colectivo YasUnidos, Defend Atlanta Forest, il Collettivo di Fabbrica ex-GKN e la nave da soccorso Louise Michel.

Da quale punto potrebbe partire la discussione del Wccj per definire “un’agenda” sul clima?

Ovviamente l’urgenza è l’uscita dal fossile. Il capitalismo fossile ci ha portati fin qui e questo è indiscutibile. Ma in realtà è la cultura estrattivista a dover essere smantellata. Allevamenti e culture intensive, espropriazione di terre, iperproduzione. La grande occasione che ci dà questa crisi è che la risposta passa necessariamente dall’anticolonialismo, dal femminismo, dall’antirazzismo, dal superamento del produttivismo, dall’antispecismo. Non se ne esce se non ribaltando valori e priorità malati. Non se ne esce se non partendo dai territori, dalle persone e dalle specie che oggi sono marginalizzate. Ci sono culture che sono capaci di prendersi cura del Pianeta e che ci possono insegnare molto, basti pensare alle popolazioni indigene dell’Amazzonia.

Che cos’è, per voi, la giustizia climatica?

Giustizia climatica vuol dire che la transizione deve avere una prospettiva di classe. Se si dice che l’auto è un problema, per esempio, prima di alzare il carburante bisogna far sì che i mezzi pubblici per chi lavora e si deve spostare in macchina siano efficienti e a basso costo, non demonizzare le classi svantaggiate perché hanno bisogno della macchina. A quel punto, si può anche parlare di auto elettriche, ma sapendo che le terre rare si estraggono sulle spalle di territori e persone che non usufruiranno dei benefici e si troveranno le acque inquinate. Sostituire l’intero parco auto d’Europa è problematico. Bene le auto elettriche, ma molte meno. Robin Hood forse riassumerebbe dicendo: smettere di rubare ai poveri per dare ai ricchi.

Quali casi di negazionismo climatico denunciate in particolare?

La televisione italiana invita ancora la controparte negazionista ogni volta che si parla di crisi ambientale, come se si invitasse un terrapiattista ogni volta che si parla di geografia. Il ministro Pichetto Fratin dice di non sapere se l’attività umana ha a che fare col cambiamento climatico. Poi ci sono i Trump e Bolsonaro di tutto il mondo, ma credo siano solo la punta dell’iceberg.

Mi sembra più pericolosa - e classista, e colonialista - l’idea che “in qualche modo ne usciremo”, che ce la siamo sempre cavata e supereremo anche questa, pur di non cambiare abitudini, valori, priorità. In questo atteggiamento c’è qualcosa di molto vicino alla banalità del male di cui parlava Arendt.

Come la pandemia ha influito sui movimenti di mobilitazione?

Sicuramente ha dato un duro colpo alla partecipazione di massa. I grandi numeri delle manifestazioni di Fridays non si sono più visti. Questo per quel che riguarda la pandemia. Allo stesso tempo le risposte deludenti delle istituzioni e l’acutizzarsi degli eventi estremi hanno radicalizzato i movimenti. Greta Thunberg non la troviamo più da sola a parlare all’Onu, ma in mezzo a tanti altri a farsi arrestare a Lützerath.

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