Diritti

L’impossibilità del silenzio

Per la scienza politica esistono 3 azioni quando si parla di “agire”: lealtà; voce, che è protesta; uscita, che comporta l’allontanamento. Rimanere zitti non sembra essere un’alternativa. Perché?
Credit: Monstera Production
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29 settembre 2023 Aggiornato alle 06:30

Non si può tacere. O meglio, si può scegliere il silenzio politico, quello dell’indifferenza, dello schierarsi senza scomodarsi, ma non il silenzio dopo la voce. In scienza politica si parla di 3 azioni contemplate nell’agire: lealtà, voce e uscita.

La lealtà al potere, alla decisione del potere, è di solito la scelta del silenzio assenso, quindi dell’ accettare, del “va bene così” di chi si sente in qualche modo rappresentato o riconosciuto nell’ agire politico. A chi si trova in una situazione contraria restano perciò Voce e Uscita.

Voce è protesta. È il contrario di silenzio, prevede un’attivazione espressiva che dica chiaramente che qualcosa non sta quadrando o che lo sta facendo molto male. Voce vuol dire provare a cambiare e farlo contemplando diversi destinatari. Ci sono le persone al potere, lo Stato, la politica, le lobby e la classe che possiede la ricchezza concentrata, ma anche il resto della società civile, ovvero altre persone che potrebbero unirsi nella Voce.

E più è estesa la cassa di risonanza della voce, maggiore è la probabilità che sia sentita, se non ascoltata. Certo, il prestare orecchio è troppo spesso un atto di policy seeking, di mantenimento del consenso convertibile in poltrona parlamentare, ma una Voce estremamente estesa potrebbe anche spezzare gambe e braccioli della poltrona, rivoltarne l’imbottitura e annullare questi principi di rialzo portando tutti a livello pavimento.

Voce. Potentissima cosa, la Voce. Una potenza riconosciuta e per questo depotenziata. Si cerca di sfibrarla, renderla così flebile da essere appena udibile, di chiamarla voce di follia, delirio, insensatezza. Lo fanno più attori, tutti quelli che, in un modo o nell’altro, traggono giovamento dalla lealtà altrui.

Perciò la Voce ci prova. Sempre. Ci mette tutta la sua materialità. Ma a volte non basta. Il sistema vive riaffermando sé stesso, coopta le cause, si tinge di colori affini alle rimostranze per camuffarsi e rendersi nuovamente appetibile. E quindi, può capire che la Voce si stanchi. Si spazientisca. Che esploda o imploda.

Appare allora l’Uscita, l’allontanamento dall’organizzazione. Uscire come atto assoluto, ma anche temporaneo. Prendere una pausa o disertare del tutto, sono entrambi strumenti dell’Uscita. Che però, non è possibile. Il silenzio dopo la Voce non si contempla. Perché dopo aver spremuto a sangue le corde vocali ed essere rimasti rauchi, non si può avere la serenità del silenzio. Non quando la protesta è contro un sistema intero.

Perché anche a tacere, a non far più Voce collettiva, non si ha spazio di riposo, distanza. Il sistema non finisce e di certo non comincia nelle piazze. È intessuto ovunque. Nella lavatrice che sta pigramente in attesa che la svuoti, negli articoli che devo scrivere, nelle persone con cui si parla, nel bicchiere di analcolico la sera. Sta lì e fissa compulsivo dentro la mia gola, per soffocare la Voce e al contempo tenerla vicino. Per farla uscire in nessun senso.

C’è chi chiama l’Uscita una fuga, codarda colpa di chi non si impegna. Eppure, sebbene uscire significhi lasciare qualcosa, implica anche l’andare da un’altra parte. Dunque, rimane costruzione politica, checché se ne pensi. Negare L’Uscita, permette di negare l’alternativa.

Per quanto sembri assurdo e disfunzionale, per quanto Hirshman che ha descritto le 3 opzioni potrebbe aver da ridire, forse la Voce e l’Uscita vanno più a braccetto di quel che si pensa. Non tanto come 2 possibilità valide ma come elementi che si intrecciano e fanno ponte per un’altra opzione.

Ecco, nel silenzio che non posso avere vorrei cercare l’alternativa. Quella che la smetta di contare le frazioni di Pil che si fondono nelle tasche dell’élite di capitale, e che odi immaginare ben oltre. Scambi, valore di bisogno e d’esistenza. Che non son parole vuote, ma possibilità reali.

E se il silenzio mi è impossibile perché si chiede di fare e fare e produrre e consumare e poi fare ancora per avere il diritto di consumare di più, allora vorrei correre verso un’ Uscita e prendermi il silenzio. Stringerlo tra le dita e andare con altri silenzi. Perché solo lá, in quell’uscita ancora libera da stupide parole di lealtà assoluta e acritica c’è un presente alternativo possibile.

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