Ambiente

Ecofemminismo: non c’è giustizia climatica senza parità di genere

L’intersezione tra ambientalismo e femminismo ci ricorda che la battaglia per un Pianeta più sano passa necessariamente attraverso il superamento delle disuguaglianze di genere
Credit: Drew Dizzy Graham
Tempo di lettura 4 min lettura
11 settembre 2023 Aggiornato alle 09:00

Una delle mancanze più gravi dell’attuale classe dirigente riguarda l’incapacità di costruire proposte politiche volte alla concettualizzazione delle interconnessioni tra ambiente e questioni sociali, irrinunciabile per la costruzione di una visione di mondo non obsoleta e restitutrice della contemporaneità.

Dal momento che intervenire con politiche pubbliche mirate su un aspetto della vita politica e collettiva di un Paese può avere un effetto a cascata sul miglioramento delle condizioni di un altro, è chiaro che il mancato riconoscimento delle intersezioni tra cambiamento climatico e questioni sociali limita drasticamente le prospettive di trovare soluzioni per entrambi.

Nel caso della parità di genere, numerosi studi hanno dimostrato che aumentare il coinvolgimento delle donne nel tessuto sociale attraverso investimenti sul welfare, garantendo a esempio maggiore accesso all’assistenza sanitaria e all’istruzione, ha un impatto diretto sulla riduzione delle emissioni.

Alla base di queste rivendicazioni c’è oggi un movimento femminista ecologista che fa dell’intersezionalità la sua cifra, battendosi affinché la lotta per la giustizia climatica sia affiancata da una discussione profonda su questioni considerate complementari come quelle della classe, della razza e, per l’appunto, del genere.

Grazie all’intellettuale francese Francoise D’Eaubonne, la cui opera Le Féminisme ou la Mort pubblicata nel 1974 ne rappresenta il manifesto, l’ecofemminismo è emerso per la prima volta negli ambienti accademici nordamericani ed europei come un ramo del movimento femminista, analizzando la subordinazione delle donne in relazione al rapporto oppressivo dell’essere umano con la natura.

Inizialmente, tale quadro di riferimento teorico ha teorizzato che la presenza di definizioni gerarchiche e dualiste del genere potessero spiegare il ruolo dominante dell’umanità nel suo rapporto con l’ambiente.

A partire dagli anni Novanta, periodo coincidente con l’inizio della terza ondata femminista segnato dalla diffusione dell’intersectionality theory (Crenshaw, 1991) e dalle idee rivoluzionarie e post-strutturaliste di Judith Butler, l’ecofemminismo divenne bersaglio di molte critiche.

In particolare, molte attiviste e ricercatrici post-coloniali accusarono il movimento ecofemminista di essenzialismo, vale a dire di promuovere una visione monolitica e universalista delle donne, portatrici invece di bisogni e istanze diverse in base a fattori quali l’estrazione sociale o il colore della pelle, e per questo esposte a differenti livelli di discriminazione.

In altre parole, se è vero come sottolineato a più riprese dalle Nazioni Unite che le donne sono più esposte agli effetti del cambiamento climatico – il quale agisce come moltiplicatore di vulnerabilità preesistenti - sarebbe intellettualmente disonesto non sottolineare che non tutte le donne lo sono allo stesso modo.

Ciò detto, sebbene sia inconfutabile che l’attenzione esclusiva dell’ecofemminismo sul rapporto tra identità di genere e natura non abbia in passato lasciato sufficiente spazio all’analisi di altri fattori cruciali come razza o classe, operando una semplificazione eccessiva di complesse strutture gerarchiche e forme di dominio, c’è ancora molto che da questo movimento, nella sua veste odierna, possiamo imparare.

Su tutte, che investire sulla parità di genere è tra le misure più sostanziali che i governi possono adottare per mitigare la crisi climatica, soprattutto nei Paesi del Sud del mondo, dove molte donne sono vittime di eventi meteorologici estremi per ragioni che a volte facciamo fatica anche a immaginare.

Tra i motivi più frequenti si riscontrano il mancato insegnamento dell’arte natatoria, che può risultare fatale nel caso di inondazione, e l’assunzione del ruolo di caregiver, che in situazioni di pericolo spinge le donne a occuparsi della prole o degli anziani prima di trarre in salvo se stesse.

Ecco quindi la lezione fondamentale che possiamo oggi trarre dal movimento ecofemminista: riconoscere che politicizzare l’intersezione tra questione femminile e cambiamento climatico è la chiave per creare società meno diseguali e più attente all’ambiente. Perché la battaglia per un Pianeta più sano e verde passa necessariamente attraverso il superamento di tutte le disuguaglianze, anche quella di genere.

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