Bambini

Le vacanze estive più lunghe d’Europa (e le madri più stanche)

Quindici settimane di stop stremano le famiglie, mentre i bambini dimenticano quello che hanno appreso e le diseguaglianze aumentano. E nessuno usi la scusa del caldo: è un problema culturale
Credit: Yujia Tang

Io me lo chiedo sempre, ogni anno, ogni estate che Dio manda in terra. Ma come fanno? Come fanno i genitori con scarsi aiuti, risorse economiche limitate, senza sostegno di nonni, parenti, baby sitter, e lavorando, a passare tre mesi e una settimana, q-u-i-n-d-i-c-i settimane, senza la scuola, quindi avendo i propri figli – uno, due, tre e più – mesi a casa? Come fanno?

Se pure chi ha aiuti è sfinito

Io, alla fine dell’estate sono stanchissima. Ho la fortuna di non dover restare forzatamente nella mia città rovente, che ormai d’estate raggiunge temperature ai limiti della vivibilità, e di potermi spostare in una casa di campagna, mille metri, dove durante le ondate di calore ormai fa caldo lo stesso, ma molto meno.

Ho anche la fortuna, un lusso, di potermi permettere un’ulteriore vacanza con i miei figli, spesso all’estero, per girare un Paese diverso e giocare a vivere un po’ altrove. Ho a tratti due nonni un po’ disponibili, anche se sempre meno. E qualche volta una ragazza del paesino veniva a giocare con mio figlio piccolo, ora non può più. Ho persino, udite udite, un marito che mi aiuta molto.

Ma in pratica, d’estate, le miei giornate si svolgono così: la spesa praticamente tutti i giorni, per forza, siamo quattro, con due ragazzini affamati: preparazione del pranzo e della cena, che significa pensare a cosa mangiare, poi si sa, chi mangia una verdura, chi l’altra; e quindi sparecchiare, pulire, ogni santo giorno. Le lavatrici, le centinaia di calzini da appaiare, stendi, piega, ma il secchio dei panni è già pieno. Mettere in ordine in continuazione, anche.

E negli intermezzi, possibilmente, lavorare, interrotta in continuazione dai bambini con le loro mille esigenze. La casa diventa un caos uditivo, chi fa le chiamate di lavoro, chi – io – interviste, chi vede i cartoni, chi sente musica. Si mettono le cuffie, certo, ma con il bluetooth spesso ci si connette per sbaglio su apparecchi diversi, uno sente la cosa dell’altro, fa anche ridere, ma trovare la concentrazione è veramente impossibile. Talvolta vado a lavorare fuori, talvolta in macchina.

Ma ovviamente questo è il meno, la cosa più faticosa, tutti i genitori lo sanno, è cercare di strappare i propri figli ai dispositivi elettronici davanti a cui passerebbero la giornata, nonostante un giardino. Un lavoro di contrattazione costante, che esaurisce veramente e la sera nessuno ha il coraggio davvero di andare a vedere il famoso “tempo di utilizzo”, mentre i pedagogisti discettano di mezzore o massimo un’ora al giorno. Comico. E poi, c’è, anche, il controllo dei compiti, anche quello, faticoso: obbligarli, spronarli, controllarli, etc. Insomma due mesi passati così. Senza tregua.

Un calendario scolastico del Pleistocene

Se spostiamo lo stesso scenario in una famiglia costretta a rimanere in città perché non ha un’altra casa, con magari un genitore che esce e l’altro che rimane solo. E deve fare tutto, lavorare da casa, a esempio, oppure comunque provvedere, nel caldo torrido, alla spesa, alla cura della casa, alla gestione dei bambini, per due mesi, magari ha un figlio disabile, magari non ci sono zone verdi vicino, i soldi per i centri estivi che si esauriscono alla prima settimana se va bene: ecco, come si fa?

Come si fa insomma ad avere il calendario delle vacanze più lungo d’Europa e i lavori meno pagati e anche con pochi giorni di ferie? Come è possibile che su questo fronte l’Italia rimanga ancorata agli anni Cinquanta e da lì, da settant’anni, non si smuova, mentre nel frattempo le temperature sono aumentate rendendo l’estate ancor più invivibile?

Vai in vacanza nei Paesi del nord, li vedi ad agosto con gli zainetti tornare a scuola. Fanno cinque, sei settimane di vacanza, a volte sette, otto nei casi estremi, non di più. Questa mostruosità di vacanze abnormi esiste solo in Italia. I sindacati non hanno alcuna intenzione di aumentare i giorni di insegnamento d’estate e neanche ovviamente gli insegnanti.

Il problema resta lo stesso: le vacanze lunghe sono quello che gli insegnanti hanno in cambio del misero stipendio. È un gioco al ribasso, sulla pelle degli studenti: ti lascio gli stipendi da fame, però che vuoi, hai tre mesi d’estate.

Si era parlato di tenere le scuole aperte d’estate per altre attività, ci sarà stata qualche sperimentazione ma sicuramente non è una cosa di massa, anzi. Mario Draghi aveva rilanciato il tema, dopo un anno tragico dove si erano persi mesi di scuola per il Covid, ma non è riuscito neanche a ottenere un paio di settimane. Il calendario scolastico italiano così resterà anche quando la terrà si sarò estinta.

Se le pause troppo lunghe fanno male

L’argomentazione più frequente è che comunque i duecento giorni di lezione sono garantiti. A parte che continuando a fare i conti con gli altri calendari scolastici non riesco a capire come possano davvero essere uguali.

Certo, altrove hanno due settimane per Natale, ma anche noi, due per Pasqua, ma anche noi o poco meno, poi una settimana d’inverno e una a febbraio. Non mi pare che ci siamo. C’è poi una discussione di lana caprina delle regioni sui giorni chiusi per calamità, o per maltempo tipo neve o altri estremi. Ma l’interpretazione prevalente, e ti pareva, è che non si debbano recuperare.

C’è anche la questione ponti, quest’anno come non mai aperta, visto che il calendario scolastico prevede maxi ponti veramente importanti. I giorni saltati si recuperano? Non è chiaro. “Tanto anche le famiglie sono contente”, è il leitmotiv neanche troppo nascosto.

Ad ogni modo, se anche i giorni scolastici fossero davvero gli stessi, anche le capre - ma poi perché dire che gli animali sono stupidi, lo siamo noi uomini - capirebbero che non è la stessa cosa, a livello didattico e di apprendimento, per come sono strutturati e divisi durante l’anno.

Qualsiasi pedagogista interpellato spiegherebbe che una interruzione così assurdamente lunga è assolutamente negativa per l’apprendimento.

Un conto è fare micro vacanze durante l’anno, un conto avere questa interruzione macroscopicamente abnorme durante le vacanze.

Parlate anche con gli insegnanti, quelli che magari hanno alunni stranieri in classe. «Ho un bambino cinese, quando torna dopo tre mesi non parla più italiano», mi ha detto una docente. Per gli immigrati, l’interruzione lunga è una doppia tragedia. Ma lo è anche per tutti i bambini e ragazzi italiani, questo tempo impossibile da gestire e organizzare. E lo è per le famiglie, perché la scuola non sarà un parcheggio ma è anche un aiuto concreto per loro, che spesso tra caldo estremo, fatica del lavoro, cura dei pasti, controllo dei compiti e tutto il resto veramente soccombono per la fatica.

Fa caldo. Ma non è il caldo il problema

L’ultima obiezione è quella che trovo più irritante: fa caldo. Il punto non è che non faccia caldo, ovvio, lo fa e talmente tanto che non si riesce quasi più a vivere in certe città. Ma perché il calendario era uguale negli anni cinquanta, quando magari a luglio si raggiungevano le temperature che oggi si raggiungono a maggio, cioè trenta gradi?

Allora mano mano che le temperature aumentano, smettiamo di andare a scuola? Si tratta di due argomenti da separare. Se l’apprendimento è qualcosa di fondamentale e se tre mesi e passa di vacanza fanno male la soluzione andrebbe trovata altrove.

Ad esempio si potrebbe finalmente pensare che le scuole possano diventare dei presidi anti caldo, dei luoghi con giardini e fontane e se possibile aria condizionata dove i ragazzi possono passare una giornata lontani magari dal degrado dei loro quartieri arroventati? Lo vogliamo fare questo salto nella modernità oppure no? Si potrebbe anche pensare di fare una sorta di dad, sì, la vituperata dad. Ma non per sostituire la scuola in presenza, assolutamente no, ma come aggiunta a essa, durante le vacanze. Per tenere il filo, non lasciare i ragazzi nel vuoto. Perché nessuno ci ha pensato?

Non ci sono i soldi. Bene. Ma allora che si dica che il problema sono i soldi, non il caldo. Che l’Italia vuole rimanere sprofondata nel secolo scorso, con le madri a casa e i padri al lavoro, peccato che prima si poteva restare in città e oggi si mette a rischio la salute e che anche le madri nel frattempo lavorino. E peccato che insieme mettano insieme una cifra che magari, anzi sicuro, non consente una persona fissa che li aiuti con i bambini o dia una mano a stirare e cucinare (anche le colf che hanno le famiglie più fortunate vanno in vacanza).

Peccato anche che oggi i figli si fanno dopo i 35 e spesso i nonni sono troppo anziani, non come negli anni Cinquanta, e magari anzi vanno anche assistiti.

Le vacanze lunghe aumentano le diseguaglianze

Insomma, purtroppo non se ne esce. Se gli stipendi restano bassi, nessun sindacato accetterà di cambiare. I governi se ne fregano, soldi sulla scuola non ne mettono, grasso che cola che una tantum un Istituto ti faccia qualche attività le settimane dopo la chiusura. Tutto ricade, come sempre sulle famiglie, che si arrangino, così va.

Così le famiglie più benestanti pagano settimane o settimane di corsi estivi, dal cavallo alla vela, oppure mandano i figli a studiare all’estero o li portano nelle seconde case pagando signore delle pulizie separate e aiuti compiti locali. E i poveri – che poi si chiamerebbero persone a basso reddito perché non siamo in un romanzo di Dickens - si sentono ancora più poveri, perché anche se non hai soldi ma i tuoi figli vanno a scuola tutto il giorno hai già una ricchezza.

La scuola è tutto. O, almeno, la scuola dovrebbe essere tutto. La facilità con la quale durante la pandemia sono state chiuse dimostra che questa centralità non è stata capita dalle persone che ci governano. E sinceramente viene da chiedersi: ma dei politici che non capiscono la centralità della scuole per i ragazzi, per le famiglie, per la società intera, che razza di politici sono? Non dovrebbero, semplicemente, fare un altro mestiere?

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