Diritti

Carceri: la California combatte le dipendenze con la buprenorfina

Nel Golden State, i detenuti vengono affiancati nel loro percorso di disintossicazione: l’obiettivo è invertire la rotta delle morti di overdose in prigione (aumentate del 600% dal 2001 al 2019)
Credit: cottonbro studio
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22 agosto 2023 Aggiornato alle 09:00

Il caldo è torrido nella prigione statale di Valley a Chowchilla, California. I detenuti si radunano e, rannicchiati attorno a piccole finestre nel cortile, raccolgono dalle infermiere la loro dose giornaliera di buprenorfina. Mostrano le mani per rassicurare gli operatori di non averne presa più del dovuto. Infine, tornano nelle loro celle. Qui, gli ospiti del carcere vengono sottoposti a uno screening iniziale che permette di evidenziare (o meno) l’uso di droghe e avviare un percorso di disintossicazione durante la detenzione. Un percorso basato sulla prescrizione, per l’appunto, della buprenorfina.

Si tratta della nuova strategia governativa californiana per aiutare all’interno dei penitenziari statali i tossicodipendenti (di Fentanyl, ma non solo) e accompagnarli in una nuova vita. La scelta della buprenorfina è dovuta al suo essere una sostanza oppioide, prodotta in laboratorio e derivata dalla tebaina, ma priva degli effetti devastanti di quelle sintetiche. Una vera e propria droga, certo. Che, come il Metadone in Italia, se utilizzata nei modi regolarmente prescritti, può portare il tossicodipendente a una maggiore tolleranza dell’astinenza.

La decisione ha l’obiettivo di invertire la curva delle morti di overdose all’interno delle carceri statali americane, decessi che dal 2001 al 2019 sono aumentati del 600%. Numeri che preoccupano il governo, tanto che il presidente Joe Biden è già attivo per cercare di aumentare i penitenziari che offrono un vero supporto per la dipendenza di oppioidi.

Il trattamento, ancora in fase sperimentale, è attivo soltanto in alcuni Paesi. I detenuti negli Usa, infatti, hanno diritto costituzionale all’assistenza medica, ma la sua qualità può variare da Stato a Stato. Alcuni, per esempio, possono ricevere cure solo se erano già attive prima dell’incarcerazione, altri invece sono sottoposti a spostamenti continui, con l’inevitabile conseguenza che brevi soggiorni portino a cure poco accurate e, quindi, a crisi di astinenza più frequenti.

Certo è che si tratta di una grande svolta per il sistema sanitario americano: «Per la prima volta c’è la volontà di espandere l’accesso alle cure nelle carceri – afferma Justin Berk, medico delle dipendenze della Brown University ed ex direttore del Dipartimento penitenziario del Rhode Island – E anche una maggior comprensione del fatto che se vogliamo affrontare la problematica dell’overdose da oppioidi, una delle popolazioni primarie su cui concentrarsi è nei penitenziari».

Non solo medicine, comunque. Insieme all’assunzione di buprenorfina sono previsti incontri comportamentali di gruppo, così che in vista di un rilascio, ogni persona abbia anche la forza di affrontare il mondo esterno che, il più delle volte, rischia di essere fonte di una seconda ricaduta, e detenzione.

Il reinserimento sociale, infatti, è uno dei momenti più delicati per i detenuti, specie per i più vulnerabili. Per questo, riprendendo l’esempio della prigione di Valley, al termine della pena chiunque lo necessiti riceve una fornitura per 30 giorni di buprenorfina, così da garantire la continuità terapeutica. Al tempo stesso viene data la possibilità di accedere a una specifica assistenza medica: il Transitions Clinic Network, un insieme di cliniche istituite proprio per intensificare l’efficacia del percorso di disintossicazione.

I primi effetti della regolamentazione si possono già vedere con chi ne ha preso parte: per esempio, l’ex detenuta Karen Souder, che dopo la pena è riuscita a ricostruirsi una vita. «Questo farmaco mi dà la possibilità di affrontare la giornata. Oggi lavoro come addetta alle pulizie per le autostrade nel dipartimento dei trasporti della California. Ho ritrovato la felicità di fare anche le cose più banali, da un bagno caldo, alla cura personale – racconta – Il giorno del rilascio sono andata a pranzo da Red Lobster con una donna che mi aveva aiutato a fare un corso di giardinaggio durante la detenzione. Quando siamo uscite dal ristorante, ho riconosciuto tutti i fiori e le piante. È stata una sensazione meravigliosa. Il cielo era blu e abbiamo scattato qualche foto. Non c’erano recinzioni, bellissimo».

Con lei, Sharon Fennix che dopo 40 anni di prigione oggi lavora in una hotline proprio al Transitions Clinic Network di San Francesco. E poi, c’è chi ancora ci sta provando. Trevillon Ward, a esempio, ha dichiarato al New York Times di aver avuto una ricaduta con la droga e di essere tornato in prigione dopo 3 anni dalla sua prima pena. Oggi si trova proprio nel carcere di Valley State, in California. E chissà che magari, questa volta, con il trattamento introdotto e perfezionato negli ultimi anni, possa davvero compiere un passo in avanti. Lui, come tanti altri.

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