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Carcere: a Milano Opera, una nuova occasione per i detenuti

Diego Montrone, presidente della scuola di formazione Galdus, racconta a La Svolta del nuovo padiglione dedicato al reinserimento lavorativo: «Può dare indipendenza, dignità»
Chiara Manetti
Chiara Manetti giornalista
Tempo di lettura 6 min lettura
2 febbraio 2023 Aggiornato alle 17:00

«Non ci piace chiamarlo “sportello”: preferiamo immaginarlo come un servizio». Diego Montrone, presidente di Galdus, definisce così il nuovo progetto partito lunedì 30 gennaio tra le mura della Casa di Reclusione di Milano Opera. La struttura, aperta nel 1987, si trova una decina di km a sud di Milano e ospita circa 1.300 detenuti, ma un nuovo padiglione per altri 400 posti letto è in fase di realizzazione.

In questi giorni si è parlato molto del carcere milanese, dopo la notizia del trasferimento di Alfredo Cospito, anarchico detenuto a Sassari e sottoposto al regime del 41-bis, in una stanza del Servizio assistenza intensificata per via delle sue condizioni di salute. È successo proprio nelle ore in cui veniva inaugurato il nuovo spazio nato dalla collaborazione tra la scuola di formazione di Galdus, l’Agenzia Metropolitana per la formazione, l’orientamento e il lavoro Afol Metropolitana e Regione Lombardia. Ne abbiamo parlato con Diego Montrone.

In che cosa consiste questo servizio?

Da esperti della formazione, ma anche delle politiche attive del lavoro, con le nostre attività garantiamo sostanzialmente un diritto del cittadino: avere servizi pubblici che ti aiutano a transitare da una situazione di difficoltà lavorativa o professionale fino ad arrivare a essere occupabile o addirittura inserito. Ecco, questo diritto e questa attività non raggiungevano ancora questa fetta di popolazione, ma sappiamo che il lavoro è un tassello fondamentale per il recupero e la ricostruzione della persona.

Così, abbiamo messo insieme la nostra esperienza e quella di altri attori, maturata in 30 anni di attività nel territorio lombardo, e l’abbiamo portata anche a chi non ne fruiva, in un momento in cui il fabbisogno di personale competente o anche semplicemente di disposto a fare una professione è altissimo. Molte aziende o rappresentanze di aziende ci manifestano la necessità di professionalità e di lavoratori che poi non trovano.

Da quali settori arriva questa richiesta?

L’edilizia, alcuni aspetti della ristorazione come la panificazione, ma non solo, e tutti i servizi di back office: in particolare, stiamo lavorando con una società che ha diverse attività legate alla digitalizzazione. È evidente che lavorare con detenuti pone dei vincoli aggiuntivi, ma alcune strutture hanno già manifestato l’adesione non solo al loro inserimento, ma anche alla valutazione di queste persone da un punto di vista delle competenze, delle abilità e della motivazione al lavoro. La logica non è generare dei luoghi dove lavorano sono ex detenuti, ma partecipare anche al loro inserimento sociale, mettendoli in condizioni dove vivono una normalità che è solo positiva per loro.

Avevate già collaborato con il carcere di Milano Opera?

Svolgiamo attività dentro il carcere da più di 20 anni, ma mai prima d’ora avevamo realizzato un servizio permanente. Realizzavamo sporadici progetti che avevano un inizio e una fine, tutti più che dignitosi, belli, che hanno anche marginato dei grandi risultati, ma che coinvolgevano solo alcuni e solo in alcuni momenti. In questo caso, invece, l’attività è sempre disponibile e potenzialmente rivolta a tutti, perché ciascun detenuto può fruirne, a prescindere dalla propria condizione. È chiaro che questa può ridimensionare obiettivi e tipologie di intervento: se sono detenuti che tendenzialmente non usciranno mai dalla struttura penitenziaria, con loro si può fare un ragionamento di professionalizzazione per servizi che servono all’interno della struttura penitenziaria, quindi per un lavoro interno.

Per le persone che invece possono uscire e avvalersi di permessi o particolari situazioni che gli consentono di uscire a lavorare, evidentemente si fa un altro tipo di ragionamento. Chiaro è che poi c’è una mediazione tra educatori interni che devono individuare le persone per cui il lavoro rappresenta un tassello positivo del proprio percorso: non è sempre la principale urgenza, e in quel caso sono persone che, magari, arriveranno ai nostri servizi in un secondo momento.

Il carcere di Milano Opera ospita un centinaio di detenuti in regime di 41-bis. Per loro è previsto anche qualche attività inerente alla formazione?

Ancora no, ma ci stiamo ragionando: in merito a questo progetto non è ancora stato avviato nulla, ma ci vogliamo e ci dobbiamo pensare. In qual caso, parlare di lavoro esterno è evidentemente impossibile. Però fornire le competenze, appassionarsi a un mestiere e al lavoro, che come dicevamo partecipa alla ricostruzione della persona, in alcuni casi è necessario. E rende ancora più urgente un servizio ad hoc.

L’obiettivo è quello di rieducare per reinserire nella società. Ma la società, le aziende… Come rispondono?

Ci si avvicina a chi decide di avvicinarsi: è innegabile che in alcuni contesti, anche magari per rispondere a dei precisi vincoli normativi, per alcuni c’è una preclusione iniziale. E di questo si prende atto, sostanzialmente. Per le aziende che aprono almeno alla riflessione, avviamo dei percorsi di conoscenza che possono verificarsi all’interno della struttura penitenziaria, oppure attraverso percorsi di tirocinio e stage che non coinvolgono formalmente l’impresa da subito, ma fanno scattare quella parte di “umanità” nel rapporto che poi, spesso, fa la differenza. E servono a misurare quanto sia superiore la motivazione di un detenuto: chi è nella parte conclusiva del suo percorso non solo detentivo, ma di riacquisizione del suo destino, vede nel lavoro il punto d’inizio di una nuova vita.

Il lavoro è ciò che lo può portare fuori, che gli può dare un’indipendenza, una dignità. Su questo poggia tutta la sua speranza, diventa decisamente più motivato, attento e voglioso di dare il meglio nella professione. Mediamente chi arriva a quel punto del percorso ha un grado di motivazione e di apprezzamento da parte delle imprese che è molto alto.

Avete anche attivato degli interventi formativi dedicati alla polizia penitenziaria?

Quando si parla di comunità educante nella struttura penitenziaria, non si può immaginare che non coinvolga anche gli agenti: su alcuni aspetti, a favore dei detenuti, è fondamentale che partecipino. È una cosa analoga a quello che accade in diverse altre professioni, ed è importante che siano coinvolti perché hanno una relazione costante e continua con i detenuti, anche maggiore della nostra, e la loro presenza sul progetto di recupero è essenziale.

Il carcere di Milano Opera è stato scelto per un discorso di continuità con i progetti precedenti, come il panificio che avete rilevato l’anno scorso, oppure c’è qualche altro motivo?

Prevalentemente la ragione è quella: nelle strutture penitenziarie la presenza di una collaborazione e di un rapporto fiduciario con la direzione, gli educatori, e con tutto l’impianto di sicurezza, compresi gli agenti, è fondamentale. Non che non si possa costruire ex novo, però è anche un percorso inevitabilmente di esperienza e di attività svolte. La direzione svolge un ruolo determinante: non si può fare nulla senza il suo avvallo, ma ritengo che il direttore (Silvio Di Gregorio, ndr) non sia solo molto disponibile, ma abbia una passione nel tema del recupero e una tale convinzione che la detenzione deve rappresentare un’occasione per tutti per ricostruirsi, che ha generato, in questi 20 anni che siamo lì, tantissimi progetti e altrettante iniziative.

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