Futuro

Chi scoprì l’importanza di lavarsi le mani?

Insaponare, sfregare, sciacquare: 3 semplici azioni capaci di bloccare la trasmissione dei batteri. L’intuizione venne al medico ungherese Semmelweis, che per questo sfidò la comunità scientifica. Ma perse
Credit: Yogendra Singh
Tempo di lettura 5 min lettura
14 agosto 2023 Aggiornato alle 20:00

Lavarsi le mani ci sembra, oggi, un gesto talmente banale e ovvio che sembra quasi impossibile che l’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) abbia istituito una giornata mondiale in suo onore (che si celebra ogni 5 maggio). Dopo la pandemia siamo state bombardate e bombardati di messaggi e comunicazioni dedicate all’importanza dell’igiene delle mani.

Per anni nei bagni di scuole, cinema, luoghi di lavoro, biblioteche sono stati appesi (e, in alcuni casi, sono appesi ancora oggi) volantini che spiegano, nel dettaglio, come ci si insapona correttamente le mani e per quanto tempo strofinarle tra loro. Secondo diversi studi, lavare le mani almeno 10 volte al giorno può diminuire del 55% la diffusione dell’infezione. Non è quindi un caso se, all’inizio di quest’anno, il 65% della popolazione italiana ha dichiarato di ritenere importante questo gesto e di averne aumentato la frequenza giornaliera.

Lavarsi le mani, come ha sottolineato più volte l’Oms, è davvero un piccolo gesto che può salvare molte vite, ma non è sempre stato così. La scoperta dell’importanza dell’igiene delle mani per evitare la trasmissione di malattie infettive mortali fu scoperta dal ginecologo ungherese Ignác Semmelweis durante il suo praticantato presso l’Ospedale Generale di Vienna, nella prima metà dell’800.

Il reparto di ginecologia e ostetricia dell’ospedale era diviso in 2 padiglioni: uno dove le gestanti venivano seguite dai medici e dagli specializzandi, l’altro dove erano invece affidate alle cure delle ostetriche. Semmelweis si rese presto conto che il tasso di mortalità delle partorienti a causa della febbre puerperale (una grave infezione dell’utero che all’epoca colpiva circa il 40% delle donne) era 3 volte maggiore nella corsia gestita dai medici rispetto a quella delle ostetriche.

Così, si mise a fare ricerche a tutto campo per tentare di comprendere le cause reali delle infezioni. Le ipotesi che circolavano allora erano infatti assurde e molto poco scientifiche: tra queste, l’idea che le setticemie fossero causate da fluidi ristagnanti nell’utero, dalla mancata espulsione di materia fecale o dalla qualità dell’aria.

Confrontando altri gruppi di dati scoprì anche che la mortalità era più alta tra le donne che partorivano in ospedale rispetto a quelle che partorivano in casa. I motivi di questa disparità rimasero un mistero, fino a quando (come spesso accade, le scoperte più importanti si fanno per caso) un amico e collega di Semmelweis morì dopo una breve malattia. Studiando la cartella clinica e il reperto autoptico, il medico si rese conto che lo stato degli organi interni del collega era praticamente identico a quello delle gestanti che morivano di setticemia. Approfondendo scoprì che l’uomo si era ferito accidentalmente proprio mentre praticava l’autopsia sul corpo di una di queste donne.

Nel 1847, nonostante fosse già stata scoperta la presenza di batteri e microrganismi da quasi 2 secoli, nessuno aveva ancora dimostrato che fossero responsabili della trasmissione di malattie e infezioni. Anche per questo, l’intuizione di Semmelweis fu straordinaria per l’epoca. Basandosi solo sulle evidenze empiriche del comportamento dei colleghi intuì che quel gran numero di morti era dovuto al fatto che i medici e gli specializzandi praticavano ogni giorno molte autopsie per poi passare al padiglione ostetrico per visitare le pazienti, senza prima lavarsi le mani né cambiarsi il camice.

Semmelweis, in quanto capo dei praticanti, rese quindi obbligatorio a chiunque arrivasse dalla sala autoptica di lavarsi le mani in una soluzione di cloruro di calce. Nel giro di pochissimo tempo, dal 18%, iniziale riuscì a portare il tasso di mortalità sotto il 3%.

Potrebbe sembrare una storia a lieto fine, ma non è così. Invece che accogliere di buon grado una semplice pratica che aveva dimostrato di poter salvare migliaia di vite, la comunità accademica si arroccò su posizioni orgogliose rifiutando l’evidenza che fossero stati i medici il veicolo di quelle infezioni. Nonostante avesse ottenuto il sostegno di qualche illustre collega, Semmelweis venne licenziato e ostracizzato dalla comunità scientifica anche a causa del suo temperamento poco diplomatico (era solito dare a chiunque non prendesse sul serio la sua scoperta dell’assassino).

Esausto e sfibrato da una lotta che sembrava impossibile vincere, finì i suoi giorni in manicomio. Morì, ironia della sorte, proprio di setticemia una decina di anni prima dei lavori sulla batteriologia di Pasteur, che contribuirono alla sua piena riabilitazione postuma e all’introduzione del lavaggio della mani nella pratica medica. L’igiene di mani e strumenti chirurgici entrò però ufficialmente nelle linee guida per il personale sanitario solo nel 1980.

Raccontare oggi la storia di Ignác Semmelweis non è importante solo per ricordare, ancora una volta, l’importanza di lavarsi le mani; è anche un monito per tutta la comunità scientifica di rinunciare a posizioni orgogliose e al “si è sempre fatto così”. Ignác Semmelweis lascia un’importante eredità, una Clinica Ostetrica intitolatagli dal Governo ungherese e il nome dell’effetto Semmelweis, che è proprio la tendenza a rifiutare nuove prove o nuove conoscenze perché contraddittorie rispetto alle norme “tradizionali” e alle proprie credenze.

Per rivivere la storia del dottor Semmelweis è stato allestito uno spettacolo teatrale, produzione dello UK National Theater, in programma all’Harold Pinter Theatre di Londra fino al 7 ottobre 2023.

Leggi anche
Virus
di Simone Spetia 2 min lettura
TOP NEWS
di Giacomo Talignani 4 min lettura