Culture

Abbiamo davvero il controllo dei nostri corpi?

Se lo chiede Silvia Federici nella raccolta di saggi Oltre le periferie della pelle, sostenendo che il potere sui corpi esiste ma non è in mano nostra
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30 luglio 2023 Aggiornato alle 09:00

Viviamo in un’epoca in cui la fusione tra esseri umani e macchine tanto descritta dalla fantascienza dagli anni ’60 in poi sembra essersi quasi compiuta. Oggi sono poche le cose che non possiamo fare al e con il nostro corpo e sembra che siamo finalmente arrivati a superare il confine ultimo, quello rappresentato della corporeità, la carne, il sangue, la pelle.

La nostra componente biologica è sempre meno determinante, non definisce più chi siamo. Abbiamo potere sui nostri corpi, possiamo modificarli, riprogrammarli, ricostruirli, spingerli al limite. Attraverso la tecnologia della realtà aumentata possiamo perfino fare esperienze reali senza che la nostra fisicità sia coinvolta davvero. Forse siamo perfino a un passo dal riprodurci fuori dal nostro corpo.

Appare dunque paradossale il tempismo della recente pubblicazione della raccolta di saggi di Silvia Federici Oltre le periferie della pelle. Ripensare, ricostruire e rivendicare il corpo nel capitalismo contemporaneo (d editore, 17.90€), un volume che riporta ben visibile sulla copertina il monito “riconquista il tuo corpo”.

Verrebbe da chiedersi cosa resta ancora da conquistare? Non abbiamo già tutto il potere che possiamo sperare sui nostri corpi?

Sì. E no. Quel potere esiste, ed è innegabile, facilitato dalle ultime scoperte scientifiche, mediche, tecnologiche. Ma lo deteniamo noi?

Secondo Federici la risposta è no, o meglio non ancora. La brillante raccolta di interventi della filosofa ripercorre la storia del dominio e dello sfruttamento dei corpi in ottica marxista e femminista per giungere alla conclusione che quel potere esiste, ma è nelle mani sbagliate.

Fin dalle sue origini il capitalismo ha compreso la necessità di esercitare la coercizione sui corpi. “L’accumulazione capitalista è l’accumulazione dei lavoratori”, lo aveva già messo in chiaro Marx.

Senza abbondanza di corpi, come mezzi di produzione, di riproduzione e di consumo il capitalismo non sarebbe mai nato, e smetterebbe di esistere. È su questa semplice formula che si basa il processo di arricchimento, di accumulazione e, per converso, di oppressione e sfruttamento. Questa è la formula che ha giustificato secoli di dominio coloniale, di schiavitù, e di controllo sui corpi delle donne.

Quello che la lucida, e allarmante, analisi di Federici mette in evidenza è che sarebbe illusorio pensare che questo regime di dominazione e sfruttamento finisca con il superamento del corpo. Anzi, l’avvicinare il corpo umano alla macchina è solo l’ennesima evoluzione di questo processo.

“È da ingenui immaginare che la simbiosi con le macchine avrà per forza come risultato un potere maggiore e ignorare i vincoli che queste tecnologie impongono alle nostre vite, oltre al loro progressivo utilizzo come mezzo di controllo sociale, in aggiunta al costo ecologico derivato dalla loro produzione. Il capitalismo ha trattato i nostri corpi come macchine da lavoro perché è il sistema sociale che più di altri ha reso i lavoratori l’essenza dell’accumulazione della ricchezza, e che ha dunque la necessità di massimizzarne lo sfruttamento”, scrive l’autrice.

Per comprendere come strumenti di potenziale liberazione, se piegati agli interessi del padrone, possano trasformarsi in ulteriori catene, niente ci aiuta meglio della storia delle donne, dei loro corpi e della loro sessualità. Ed è proprio a questo tema che Federici dedica un lungo e infuocato capitolo.

In principio era l’industria leggera, principalmente tessile, dove tutti e tutte potevano facilmente manovrare i telai meccanici. Donne, bambini, persone anziane o malate. Non importava la qualità, ma la quantità. Finché si disponeva di un bacino di manodopera tale da poter rimpiazzare quella che moriva, la sopravvivenza del capitalismo era assicurata. Andavano bene quindi i quartieri operai, la relativa libertà delle donne, la promiscuità, le lasche regole sociali che organizzavano la famiglia.

Ma poi arrivarono il carbone e l’acciaio, il lavoro in fabbrica divenne più duro, serviva forza fisica, servivano corpi energici, adatti al lavoro. Così le donne vennero rimandate a casa, liberate dal lavoro ed elette a regine della casa, angeli del focolare, depositarie di una virtù che fino a quel momento era appannaggio delle donne delle classi più alte.

Era un inganno. Il matrimonio divenne una gabbia, l’obbligo di riprodursi una nuova forma di sfruttamento, unita a tutto il lavoro domestico che dopo secoli non ha ancora trovato la sua degna retribuzione. Questa fase durò dei decenni. Esaltazione della maternità e negazione della soddisfazione sessuale, di cui le donne potevano fare senza e che gli uomini trovavano grazie alle lavoratrici sessuali.

Ma poi ci fu la guerra, e la nascita dei movimenti di massa, la psicanalisi, la riflessione sulla liberazione sessuale femminile e la necessità di tenere anche gli uomini tra le mura domestiche dopo il lavoro, per evitare che si organizzassero e che i movimenti operai diventassero troppo potenti. A quel punto le donne, oltre che tenere la casa, dovevano anche soddisfare i mariti a letto, fare tanti figli ma restare magre e attraenti, essere casalinghe impeccabili ma con i capelli in ordine e mai lo smalto sbeccato.

E alla fine ci fu la rivoluzione sessuale e anche quella, che doveva essere appunto una rivoluzione, venne piegata alle logiche della produzione. Obiettivo: l’orgasmo perfetto.“Le donne potevano fare l’amore e raggiungere l’orgasmo, anzi dovevano. Se non ci riuscivano, significava che non erano delle vere donne; o peggio, che non erano liberate.”

Alla luce di questa analisi storica non sorprende dunque che, fin dalle prime pagine, Federici metta in chiaro che: “In un periodo in cui viene promosso il rifacimento del corpo come via per l’emancipazione sociale e la determinazione di sé, dobbiamo chiederci quali benefici possiamo ricavare dalle politiche e dalle tecnologie che non sono controllate dal basso.”

È proprio questa una delle domande che funge da filo rosso di tutta la raccolta, e per rispondere (o tentare di farlo) Federici non ha paura di confrontarsi con alcuni dei temi più caldi, e anche spinosi, del dibattito femminista e intersezionale: l’identità di genere, il sex work, la maternità surrogata, l’aborto, la contraccezione, il razzismo, l’ecologia. Tutto è messo sotto la lente della critica costruttiva, che disseziona, sviscera e analizza ogni dettaglio senza mai cadere nella vuota ideologia.

Il risultato è un libro appassionante, che porta a galla interessanti elementi di riflessione e, a tratti, terrorizza. Il messaggio di Federici, però, non è pessimista. È vero, pensavamo di avere un potere che in fondo non abbiamo. Quegli strumenti che ci sembravano tanto positivi sono nella mani sbagliate e possono essere usati contro di noi. Il sistema capitalista è così pervasivo che ci ha sottratto il controllo sui nostri corpi facendoci credere di avercelo fatto conquistare. Ma possiamo ancora fare qualcosa.

I nostri corpi alla fine sono ancora qui, limitati e in un certo senso limitanti, margini ultimi che forse non riusciremo mai a superare. Ma come ci ha insegnato bell hooks, il margine può essere territorio di resistenza.

E allora partiamo da qui. “La nostra lotta deve cominciare con il riappropriarsi del corpo, con la sua rivalutazione e la riscoperta della sua capacità di resistere, di espandersi, deve cominciare con la celebrazione dei suoi poteri individuali e collettivi.”

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