Culture

Sanremo. Di outfit e corpi delle donne

Chiara Ferragni ha indossato abiti manifesto con messaggi di libertà. Un chiaro - ma efficace - esempio di brand activism
Alessia Ferri
Alessia Ferri giornalista
Tempo di lettura 6 min lettura
8 febbraio 2023 Aggiornato alle 13:20

Chiara Ferragni ha almeno 28,6 milioni di follower su Instagram e qualunque cosa faccia la vedono 28,6 milioni di persone. Sembra banale partire da questo dato ma non lo è perché ogni commento sulla sua persona, e soprattutto sul suo modo di fare attivismo femminista ruota intorno a quel numero al quale deve costantemente rendere conto. Per accrescere il suo brand, per alimentare l’ego personale o per lanciare messaggi importanti, decidi tu. C’è chi lo chiama esibizionismo, chi egocentrismo, chi probabilmente centra più il punto e parla di brand activism.

L’influencer si muove con uno squadrone di collaboratori che, nonostante vogliano far credere il contrario, non lascia nulla al caso e il Festival di Sanremo non ha fatto eccezioni.

Aspettarsi qualcosa di diverso rispetto a ore di selfie tramutate in presenza televisiva era ingenuo e infatti il copione è stato quello - con qualche buona sorpresa - ma anche molti momenti che hanno lasciato tutti a chiedersi se ce ne fosse bisogno.

Spoiler: forse no. Parliamo soprattutto del monologo. Alcuni spunti buoni ci sono stati ma lo stucchevole accostamento piccola Chiara non ti abbattere – imprenditrice di successo non ha portato molti nuovi argomenti al tavolo della discussione. Ha portato invece lei, Chiara Ferragni, centrale e centralizzante in ogni mossa, riuscita o meno.

Più azzeccata l’idea di parlare attraverso gli outfit, con le dovute puntualizzazioni. La sua prima uscita è di quelle che non ti aspetti a partire dall’hair look, un taglio di capelli corto sopra le spalle, per gli esperti si tratta di un long bob (nei prossimi mesi vedremo solo long bob, ovunque). Una scelta beauty necessaria per dare risalto all’abito, un Dior disegnato da Maria Grazia Chiuri in collaborazione con il collettivo femminista Claire Fontaine il cui pezzo forte è stata una stola con la scritta Pensati libera, rivolta a tutte le donne.

Primo capitolo di una serie di abiti manifesti, la scritta ha prestato immediatamente il fianco a un numero infinito di meme in merito e riscritture del claim, dal Pensati Povera lanciato da Selvaggia Lucarelli in avanti. C’è chi ha scomodato Alexandra Ocasio Cortez, paragonando il Dior sanremese all’abito con la scritta Tax the rich indossato dall’astro nascente della politica statunitense al Met Gala del 2021. Ma la realtà è che i due mondi non convergono in alcun modo, nemmeno per un millimetro di stoffa.

Non volendo mettere in dubbio la buona fede di Ferragni, è però innegabile che la sua narrazione non tenga conto della situazione di privilegio da dove è partita e nella quale vive e perpetua. Non credo, come molti, che il brand activism sia da denigrare e che fare marketing sia necessariamente agli antipodi con il portare avanti istanze sociali, ma essere attivista significa qualche volta sporcarsi le mani, dire cose scomode, scardinare anche solo di un soffio quel sistema che invece lei incarna completamente e che la rende agli occhi di molti meno credibile.

La moda ha sempre parlato attraverso gli abiti e non è certo la prima volta che ci troviamo di fronte a creazioni manifesto: basti pensare alla sfilata di Gucci dello scorso settembre che ha portato in passerella una felpa con la scritta Fuori (Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano) o alle 1.000 magliette di Vivienne Westwood contro il patriarcato o la crisi climatica. Anche in quei casi, però, le critiche non sono mancate, perché se da un lato si strizza l’occhio alla rivoluzione, dall’altro si alimenta un’industria milionaria, fatta per milionari, dalla quale le donne sono spesso escluse, soprattutto se non nate all’ombra del privilegio.

Quello del quale non vergognarsi ma nemmeno da nascondere. Parlarne a viso aperto sarebbe stato il vero atto controcorrente, potente quanto il secondo abito, che ricalcando fedelmente il corpo dell’influencer l’ha messa letteralmente a nudo. Un corpo, quello delle donne, sempre al centro di dibattiti e chiacchiericci, discusso e discutibile, del quale raramente si riesce a disporre in piena libertà. La scelta di mostrarlo, anche solo tramite un’illusione, ha voluto dire a tutte che farlo o non farlo non rende una donna più o meno autorevole, e men che meno autorizza gli uomini a disporre di quel corpo a piacimento.

Sullo stesso filone l’ultimo look, che Ferragni dedica alla figlia Vittoria e alle bambine che immagina un giorno libere dagli stereotipi di genere nei quali spesso ci si sente ingabbiate. La tutina in jersey ricamata di strass è completata da una gonna di tulle ispirata all’opera dell’artista Jana Sterbak e rappresenta la speranza di rompere le maglie imposte dal patriarcato.

Prima del suo ingresso in scena c’era stato spazio per la creazione Dior contro gli haters, un vestito bianco ricamato con perle nere a formare le frasi ricorrenti sotto i post dell’influencer, soprattutto quelli in cui si mostra in lingerie, costume o con pose giudicate troppo per una mamma e moglie.

Il corpo delle donne - ancora lui - sotto accusa. Da sempre protagonista sul palco dell’Ariston, dove soubrette bellissime si sono avvicendate negli anni e le cui immagini sono state scandagliate ai raggi X. Quest’anno il copione si è ripetuto e si ripeterà, ma è innegabile che Ferragni abbia provato, riuscendoci in parte, ad alzare l’asticella con buona pace per chi denigra il sui brand activism, e a mostrare che oltre ai lustrini c’è di più.

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