Economia

Tutto, purché loro (le donne) rimangano fuori

Donne e mercato del lavoro: secondo Banca d’Italia, le misure di politica fiscale contribuiscono ad accrescere le distanze. E gli effetti negativi colpiscono l’intero Paese
Credit: Wework.com
Azzurra Rinaldi
Azzurra Rinaldi economista
Tempo di lettura 5 min lettura
4 luglio 2023 Aggiornato alle 06:30

Quando ho iniziato la mia carriera accademica, l’economia femminista in Italia era ancora per poche coraggiose e io, evidentemente, ero troppo giovane per esserlo abbastanza.

Così, ho passato i primi 10 anni di lavoro occupandomi di politica fiscale cercando, quando possibile, di far intersecare i due ambiti.

Obiettivo, in realtà, piuttosto semplice, se consideriamo che le decisioni di spesa di ogni governo (come quali settori supportare, a quali categorie di cittadini concedere benefici o trasferire denaro) hanno, tutte, implicazioni di genere.

A volte, avviene in maniera esplicita e intenzionale, come accadrebbe a esempio se il governo italiano decidesse di dedicare nel prossimo Documento di Economia e Finanza qualche fondo per comparare il congedo di paternità obbligatorio a quello di maternità obbligatorio. Altre volte, invece, gli effetti collaterali delle decisioni di politica fiscale non sono (del tutto) intenzionali.

Politiche fiscali e impatto di genere

Su questo secondo caso si è espressa recentemente anche Bankitalia, facendo esplicito riferimento al meccanismo della detrazione per il coniuge a carico. L’idea in estrema sintesi è questa: se la coniuge non lavora (o comunque se non produce un reddito superiore ai 2.840,51 euro), chi invece lavora può beneficiare di una detrazione, ovvero di una riduzione del carico fiscale Irpef.

Ecco, secondo Banca d’Italia, questo strumento fiscale può tradursi, in realtà, in un incentivo alle donne (che sono tendenzialmente il coniuge denominato secondo percettore di reddito, perché in Italia, ricordiamolo ancora una volta, lavora solo una donna su due) a rimanere a casa, per rimanere a carico.

E non è l’unico strumento di fiscale ad andare nella direzione di un ulteriore allontanamento delle donne dal mercato del lavoro. Almeno stando a Banca d’Italia, che punta il dito anche contro il discusso meccanismo dell’Isee.

In questo caso, il lavoro delle donne viene scoraggiato (e, in particolar modo, il lavoro regolare) perché l’Isee compara l’aumento di reddito dell’unico percettore (prevalentemente maschio) all’aumento del reddito famigliare dovuto al rientro della donna sul mercato del lavoro dopo la maternità.

Ancora una volta, con effetti sulle decisioni legate alla genitorialità. Eh, sì, perché se le madri non tornano al lavoro, l’Isee della famiglia è più basso e si possono ottenere detrazioni importanti, a esempio, per mandare i figli all’asilo nido (e parliamo di incentivi che possono arrivare fino a 3.000 euro). Ma se le donne tornano a lavorare (e quindi, a rigor di logica, le famiglie avrebbero più bisogno di un supporto per le spese legate alle strutture per l’infanzia), il reddito famigliare sale e le detrazioni si riducono fino ad annullarsi.

Un altro esempio ancora: alla lavoratrice madre che si dimette volontariamente entro il primo anno di età del bambino, la legge riconosce il diritto a percepire la nuova prestazione di assicurazione sociale per l’impiego (Naspi), ovvero un’indennità mensile. Unica condizione: è necessario che negli ultimi 4 anni abbia maturato almeno 13 settimane di contributi. Ora, ragioniamo anche sul fatto che, fino al 2022, avesse lavorato per almeno 30 giorni. Ma adesso non serve più. E, come ulteriore incentivo a uscire dal mercato del lavoro, la Naspi è garantita fin dalla gravidanza: ne possono beneficiare anche le lavoratrici madri purché si dimettano nel periodo cosiddetto “tutelato” (ovvero, da 300 giorni prima della data del parto fino al primo anno di età del bambino.

Se a pagare la child penalty è tutto il Paese

Ancora child penalty, ancora ostacoli alla parità di opportunità sul mercato del lavoro. E Bankitalia avverte: gli effetti di queste discriminazioni si esercitano a lungo termine e non solo sulle fasce di reddito più basse. E le donne che si trovano nel decimo superiore della distribuzione salariale (ovvero, quelle più ricche), alla fine della propria carriera guadagnano in media il 30% in meno rispetto agli uomini che si trovano nell’ultimo decimo. E ancora una volta, tutto questo determina una perdita collettiva.

Anche perché le donne non sono solo dipendenti, ma anche imprenditrici. Innovano, creano reddito, trainano un nuovo modo di fare impresa.

È quanto emerge dalla recente ricerca, Step into the Next Economy: il digitale come leva strategica per il futuro delle Pmi, realizzata da Mastercard in collaborazione con AstraRicerche.

Le donne sono protagoniste della rivoluzione digitale, del nuovo business sostenibile e anche dell’innovazione digitale. La ricerca ha chiesto al campione di 804 imprese di valutare il livello di digitalizzazione della propria attività. E a dare le risposte più positive sono state proprio le donne (46%), insieme alle persone più giovani (45%).

Creare spazio, eliminare le barriere che ostacolano le donne - ripetiamolo ancora una volta - conviene a tutte e tutti.

Ma per andare in questa direzione occorre abbandonare una volta e per tutte l’equazione che identifica le donne unicamente (o soprattutto) come madri. E favorire la loro presenza, sia come dipendenti che come imprenditrici, sul mercato del lavoro.

Leggi anche
Disuguaglianze di genere
di Alessia Ferri 4 min lettura
Salute
di Fabrizio Papitto 3 min lettura