Diritti

La medicina non guarisce il gender gap

Anche nella sanità c’è un tetto di cristallo indistruttibile.
Le donne sono di più, ma sono pagate meno e non ricoprono posizioni di potere
Credit: Ashish Vaishnav/SOPA Images via ZUMA Wire
Alessia Ferri
Alessia Ferri giornalista
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6 luglio 2022 Aggiornato alle 11:00

Ad intuire che a mettere a repentaglio la vita del cosiddetto “paziente uno” fosse il Covid è stata nel 2020 l’anestesista Annalisa Malara. E tutti ricordano le tante dottoresse e infermiere che, insieme ai colleghi maschi, hanno lavorato in pandemia, spingendosi spesso al limite delle forze. I loro occhi esausti e i volti segnati dalle mascherine sono divenuti il simbolo dell’emergenza. Ma nemmeno questo è servito a scuotere l’ambiente e a superare il gender gap nel settore sanitario italiano, dove le donne sono sì impiegate, ma con stipendi inferiori agli uomini e raramente in posizioni apicali.

La massiccia presenza degli immunologhi in tv (quasi tutti maschi) lo aveva già fatto intuire da tempo, ma a dirlo con certezza sono i numeri che emergono dai tanti report annuali, come quello della Fiaso (Federazione italiana aziende sanitarie e ospedaliere) che lo scorso marzo ha indagato la presenza femminile ai vertici delle direzioni generali delle aziende sanitarie e ospedaliere italiane, con risultati che a una prima lettura ad alcuni erano sembrati addirittura positivi.

Il trend di crescita di donne manager è risultato infatti graduale e continuo negli ultimi quattro anni passando dal 14,4% del 2018 al 22% del 28 febbraio 2022. Aumentate del 2,7% rispetto al 2021 anche le direttrici amministrative, oggi pari al 37,9% del totale. Quasi invariata, invece, la presenza femminile nei ruoli apicali delle direzioni sanitarie che si attesta al 32,6%, con una variazione dello 0,01% in più rispetto allo scorso anno. Infine, sono quattro su dieci le direttrici sociosanitario, frutto di un lieve decremento che passa da una presenza del 47,6% del 2021 al 44,4% del 2022.

Tuttavia, nonostante quasi tutte le curve in ascesa, è impossibile non notare come gli indicatori restino molto lontani da quel 50% che significherebbe vera uguaglianza. Una considerazione che assume ancora più valore alla luce del fatto che le donne che lavorano nella sanità sono più degli uomini, come sottolineato anche da Monica Calamai, direttrice dell’Asl di Ferrara e coordinatrice della community Donne protagoniste in sanità, che si batte per colmare i divari occupazionali e di retribuzione in sanità e che recentemente ha organizzato a Bologna una convention sul tema.

«Anche se nei comparti infermieristico, tecnico e dell’assistenza le donne superino il 50%, sono gli uomini ad avere posizioni di potere, persino negli ordini professionali a prevalenza femminile. E anche i ruoli di direttore di strutture complesse vedono una massiccia prevalenza maschile, eppure le donne sono spesso superiori di numero rispetto agli uomini anche nelle università e si laureano prima».

A confermare quest’ultimo aspetto anche AlmaLaura, che ha reso noto come sui 291.000 laureati del 2020 le donne fossero pari al 58,7% del totale e che 7 neolaureati in scienze mediche su 10 appartenessero al genere femminili. Insomma, le professioniste della sanità sono di più e più preparate, eppure non riescono a progredire nella carriera.

Purtroppo non si tratta di una novità, né di una situazione che riguarda solo la medicina ma tutto il mondo del lavoro, figlia del meccanismo noto come soffitto di cristallo che indica l’insieme di barriere sociali, culturali e psicologiche che si frappone come ostacolo insormontabile, ma all’apparenza invisibile, al conseguimento della parità dei diritti e alla concreta possibilità di carriera per categorie storicamente soggette a discriminazioni. Tra queste le donne.

Per il 2022 secondo l’Economist, che ogni anno stila il Glass-Ceiling Index sui 29 Paesi più ricchi dell’Ocse, l’Italia si piazza a un poco entusiasmante diciassettesimo posto. Ovviamente si tratta di dati generici e non specifici del comparto medico ma che si riflettono con sfumature di poco differenti su ogni categoria lavorativa.

Inoltre, come se non bastasse, a pesare sulla sanità è anche il dato sulla differenza di stipendio, visto che nel settore il gender pay gap oscilla tra il 16 e il 20% e che le laureate in scienze mediche percepiscono in media 1233 euro netti mensili, contro i 1387 dei ragazzi.

Differenze salariali che, unite alle difficoltà di carriera, portano molte a rinunciare al lavoro, anche sconfortate dalle azioni fino a oggi messe in campo dal Governo, indubbiamente insufficienti nonostante la ministra per le Pari Opportunità Elena Bonetti abbia più volte posto il ruolo delle donne tra le priorità sui quali il Paese starebbe investendo tramite lo stanziamento di parte del Pnrr e il Fondo Impresa Donna 2022.

Indubbiamente si tratta di iniziative importanti ma per colmare il gender gap è necessario un cambiamento prima di tutto culturale che porti a concepire la presenza di donne in posizioni cardine e non le investa in toto delle responsabilità legate alla cura di eventuali figli o di altre persone fragili della famiglia.

Nel frattempo, per vigilare sulla situazione del comparto sanitario e cercare di cambiarla, Patrizia Ravaioli, già direttrice generale di Croce Rossa ed ex direttrice generale della Lega italiana contro i tumori, ha fondato insieme ad altre professioniste l’Associazione Leads (donne leader in sanità). Da questa realtà è nato il primo Osservatorio nazionale in collaborazione con la Luiss, che si pone come obiettivo la misurazione del cammino verso la parità di genere nel settore sanitario pubblico, privato e farmaceutico, mappando le falle, proponendo azioni concrete per superarle e premiando ogni progresso in corso.

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