Culture

Giuseppe Caporale: «Bisogna sviluppare un sano spirito di allerta»

Dal suo libro Ecoshock l’autore lancia l’allarme sull’accelerazione del cambiamento climatico nel Mediterraneo e a La Svolta racconta di come sia in corso un conto alla rovescia su un pericolo imminente
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11 giugno 2023 Aggiornato alle 13:00

Dialogando con Giuseppe Caporale, giornalista e autore di Ecoshock - Come cambiare il destino dell’Italia al centro della crisi climatica (Rubettino Editore), si percepiscono sensibilità e voglia di scendere in campo. «Riflettendo sul bisogno di futuro delle nuove generazioni è necessario essere consapevoli di ciò che sta avvenendo per aiutare la classe dirigente e l’opinione pubblica, per quanto non sia semplice sensibilizzare su questi temi», spiega a La Svolta .

Come mai dopo anni di cronaca ha deciso di addentrarsi nel tema della crisi climatica?

Per vent’anni sono stato il giornalista del giorno dopo. Il mio libro Il Buco Nero e il documentario Colpa Nostra, entrambi su L’Aquila, sono inchieste del ‘si poteva evitare’ e credo di aver utilizzato quest’espressione almeno in cinquanta occasioni, pensando anche ad altri eventi di cronaca.

Questo libro è invece il tentativo di essere il giornalista del giorno prima, utilizzando tutte le informazioni che oggi sono disponibili.

Mi sono imbattuto in una notizia enorme come quella dell’accelerazione del riscaldamento globale nell’area del Mediterraneo e vorrei diffonderla il più possibile.

I climatologi dicono che siamo un ‘hot-spot’, un laboratorio anticipatore di tutti gli aspetti del cambiamento climatico. Approfondendo questo tema, ho avvertito l’urgenza di comunicarlo e provare a salvare qualcuno, se è possibile.

Purtroppo ciò che è avvenuto in Emilia Romagna non è un caso e subito dopo ci ho tenuto a dire «non chiamatela alluvione, ma evento estremo».

A oggi la posizione della Procura di Bologna è di non aprire nessuna indagine perché lo considera un evento eccezionale e questo vuol dire che non ravvede una responsabilità umana. La quantità del fenomeno (13 temporali in 36 ore) è stato talmente fuori portata che non c’è un fattore umano che avrebbe potuto evitarlo.

L’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) aveva già segnalato delle zone fortemente a rischio rispetto a frane e alluvioni per problemi idrogeologici e con l’accelerazione dell’impatto del cambiamento climatico la situazione si è aggravata ulteriormente. Siamo di fronte a nuove possibili gravi calamità. Il libro prova a sensibilizzare l’opinione pubblica affinché lo Stato metta in campo una serie di finanziamenti volti alla difesa del territorio il prima possibile.

Di che cifre di investimento parliamo?

Sono necessari 26 miliardi di euro per mettere in sicurezza tutto il Paese. Intanto ci sono 12 miliardi per gli interventi di messa in sicurezza e la stessa Protezione Civile ha dichiarato che esistono una serie di progetti pronti per essere messi in campo. Si parla tanto di questi 200 miliardi del Pnrr (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, ndr) che non saremmo in grado di spendere. Potremmo chiedere con determinazione all’Europa di utilizzare parte di quei fondi, non sugli armamenti come prevede l’Unione, ma più per la messa in sicurezza del territorio. Si potrebbe fare, occorre non lasciare nulla di intentato.

A proposito della decarbonizzazione cosa può dirci?

È un tema mondiale. Io non mi concentro tanto su questo perché l’Italia contribuisce per l’1% della CO2 del mondo, l’Europa per l’8% per cui possiamo fare poco. Il nostro Paese sta facendo ‘i compiti a casa’, portando avanti la sua transizione e non può neanche accelerare troppo perché c’è un forte rischio di de-industrializzazione che potrebbe accelerare l’economia.

Spesso si afferma che la generazione precedente a quella dei giovani d’oggi abbia lasciato un mondo ‘sbagliato’. Partendo dai dati che ha raccolto e da ciò che ha vissuto, quanta responsabilità crede ci sia nei suoi coetanei?

Tanta. Come afferma il climatologo Michael Mann: «abbiamo allevato generazioni che non sanno far altro che consumare».

Quando oggi si dice di ridurre le emissioni, la climatologa spiega come il rilascio della CO2 abbia una durata di 100 anni per cui l’inquinamento di cui stiamo subendo le ripercussioni adesso, è stato prodotto diverso tempo fa.

Un altro aspetto che scienziati e climatologi dicono sottovoce è che con tutto l’impegno che possiamo mettere su mitigazione e decarbonizzazione potremmo ridurre gli effetti, ma non tornare alla situazione iniziale. Il mondo lo abbiamo già rotto producendo questo modello di società, che dovrebbe farsi un bell’esame di coscienza. Adesso è come se la Terra fosse un grandissimo transatlantico, qualunque virata va fatta molto lentamente ma il punto è che non abbiamo tempo.

La mia generazione è cresciuta pensando che il cambiamento climatico fosse un problema della Groenlandia e non nostro. Non coglie che ciò che è successo sulla Marmolada è colpa di questo fenomeno e che la montagna è fortemente a rischio così come lo sono i modelli industriali e turistici a essa annessa.

Vede qualche spiraglio rispetto all’opinione pubblica?

Qualcosa di nuovo è mutato con il Covid, tant’è che, durante una delle primissime riunioni con un Osservatorio di cui faccio parte, mi è venuta in mente questa suggestione: i climatologi sono i virologi del futuro. Tra dieci-quindici anni avremo un climatologo che ci dirà a che ora si può uscire e qual è la zona migliore.

Spesso ahimè scatta il modello del negazionismo, in programmi televisivi si litiga in merito alla busta di plastica per l’insalata, ma il punto è un altro: ci vorrebbe un’unità di intenti per la messa in sicurezza del territorio.

In un punto del libro cita la dichiarazione di Tiziano Luconi, padre di un bambino spazzato via dalle braccia della madre dalla potenza dell’acqua durante l’alluvione di Senigallia del settembre 2022: «Non si può morire perché piove».

Purtroppo sarà sempre di più così se non si interviene subito. Ci sono costruzioni e strade vicino ai fiumi ma manca ancora la cultura del rischio perciò penso che questo libro possa essere utile affinché le persone possano maturare una determinata consapevolezza.

Iniziano a circolare in rete dei vademecum e norme di comportamento. Se cominciamo a sviluppare una cultura del rischio rispetto all’impatto del cambiamento climatico sulla fragilità del nostro territorio, magari si potranno salvare vite e a mettere in sicurezza le persone. Sappiamo che i primi a perdere la vita sono i fragili, gli anziani e i bambini. Non basta dire abbiamo dato un allarme meteo, occorre fare delle attività di formazione che, a oggi, non sono mai state fatte.

Capitolo risarcimenti

In una parte del libro racconto come dal 2013 al 2019 per eventi di questo genere siano stati richiesti 20 miliardi di risarcimento e siano stati erogati solo 2,4 miliardi di cui 800 milioni dell’Unione Europea, a testimonianza che tanti danni non verranno mai risarciti.

Viviamo immersi in un contesto collettivo di grande emozione del momento e di grande amnesia successiva.

Ho effettuato delle proiezioni incrociando le teorie dei climatologi con i dati dell’Ispra e, se lo scenario è questo, nemmeno lo Stato avrà la forza di tenere in piedi tutti questi risarcimenti perciò bisogna iniziare a immaginare che se, a esempio, una casa si trova in un contesto critico forse sarebbe meglio assicurarla. Non sono state previste però, al momento, assicurazioni calmierate e non se ne parla.

Quale ruolo ha l’informazione di fronte a tutto questo?

Senza l’aiuto dell’informazione la scienza non riesce a comunicare la drammaticità e l’urgenza della situazione. L’informazione deve educare all’impatto. Mi auguro che questo libro possa sensibilizzare artisti, persone del mondo della cultura, della politica a spingere in questa nuova prospettiva.

Lei sostiene che non sempre le persone riescano a mettere in pratica nella vita di tutti i giorni ciò che predicano i movimenti come quello di Greta Thunberg, ma ciò non significa siano insensibili alla causa ambientalista.

Ritengo che l’Italia non si possa permettere di affrontare questo problema in modo ideologico. Le responsabilità delle generazioni precedenti sono un dato di fatto. Adesso la questione è limitare il danno. Invece esiste un ecoideologismo che punta il dito, può fare comodo alle tv creando buoni da una parte e cattivi dall’altra così da fare ascolti, ma non porta il Paese da nessuna parte; anzi fa perdere la bussola su quale sia l’obiettivo.

Quindi lei crede che in Greta Thunberg e nel movimento che ha creato ci sia del positivo a livello di pensiero, però poi sia stato strumentalizzato?

Esatto. È positivo perché si riscontra una coscienza diversa nei giovani nel rapporto con l’ambiente; è negativo quando diventa una strumentalizzazione per costruire un processo alle altre generazioni (che hanno delle gravi responsabilità) perché poi tutto si trasforma in una lite tra curve che blocca il sistema.

Si potrebbe pensare a un’educazione civica, a scuola; però poi torna in mente il suo: «Non abbiamo più tempo»

I ragazzi ci hanno già insegnato tanto nella grande opera di volontariato in Emilia Romagna. Sono stati chiamati ‘gli angeli del fango’. Non sono angeli, ma ragazzi impegnati, che hanno prestato il loro tempo e la loro forza per aiutare una regione in difficoltà. Già questo dimostra una sensibilità diversa rispetto alle precedenti generazioni. La messa in sicurezza deve maturare a scuola, ma credo che sarà una conseguenza. Il nostro comportamento individuale adesso deve consistere nel vedere dove abitiamo, se siamo soggetti a rischio rispetto agli eventi, chiedere al Comune di competenza di mappare il territorio e il rischio.

Successivamente si dovrà affrontare l’impatto globale del cambiamento climatico, che è una sfida che deve vincere il mondo tutto insieme.

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