Ambiente

Studiare la demografia per affrontare il cambiamento climatico

Secondo la Commissione europea il climate change è collegato a reddito, età e contesto abitativo. Elementi da tenere presente per mettere a punto politiche efficaci di sviluppo sostenibile
Credit: Jeffrey Czum
Tempo di lettura 5 min lettura
9 giugno 2023 Aggiornato alle 10:00

“Se la popolazione continuerà a crescere con questi ritmi sarà impossibile fermare il cambiamento climatico”. Non è difficile imbattersi in ritornelli di malthusiana memoria come questo, e di sicuro guardando ai dati gli scenari che si prospettano non sono confortanti.

Attualmente il nostro Pianeta ospita circa 8 miliardi di persone, un numero, secondo le stime, destinato ad arrivare ai 10 miliardi entro il 2060. Più persone significa naturalmente più consumi energetici e più produzione alimentare, quindi più emissioni.

Ma la relazione tra aumento demografico e cambiamento climatico non è davvero lineare come potrebbe apparire a un primo sguardo. A evidenziarlo è una ricerca del Joint Research Center (JRC) della Commissione europea presentata lunedì 5 giugno.

Secondo quanto riportato dal report, attualmente le popolazione mondiale sta crescendo a ritmi più sostenuti in regioni del mondo che hanno il livello più basso di emissioni e che sono meno responsabili delle emissioni del passato, mentre i “grandi inquinatori”, Usa, Cina ed Europa, si trovano sulla fase discendente della curva demografica.

Questo dato mette in luce che potrebbero essere altri gli aspetti demografici legati al cambiamento climatico, invece che il semplice numero della popolazione.

In primo luogo va tenuto in considerazione il fattore reddito.

Dati alla mano, la ricerca spiega come siano i Paesi a reddito alto e medio-alto a essere responsabili per ben l’85% delle emissioni globali, pur ospitando solo il 50% della popolazione mondiale.

La differenziazione nella quantità di emissioni dovute a diverse fasce di reddito non avviene solo a livello internazionale, ma anche all’interno dello stesso Paese. Lo stile di vita delle persone più ricche infatti è caratterizzato da consumi energetici maggiori, e di conseguenza maggiori livelli di inquinamento. Il 10% più ricco della popolazione è infatti responsabile per il 48% delle emissioni, mentre il 50% più povero solo del 12%. Inoltre, secondo alcune stime, l’1% più ricco sarebbe responsabile del 24% delle emissioni globali degli ultimi trent’anni.

Una seconda caratteristica demografica da tenere in conto è l’età. I dati infatti mostrano che le persone più avanti con gli anni hanno uno stile di vista caratterizzato da un maggiore consumo energetico, specialmente legato alla sfera domestica (elettricità, riscaldamento…).

I dati raccolti dal Jrc evidenziano un picco di emissioni nella vita degli individui nel lasso di tempo che va dai 40 ai 55 anni. In particolare le emissioni degli europei e delle europee tra i 40 e i 44 anni sono attualmente il doppio di quelle consentite per mantenere il livello dell’innalzamento della temperatura sotto la soglia dei 2°, e secondo alcune stime entro il 2060 il 40% delle emissioni sarà causato da persone over 65. Inoltre, le persone più anziane sono spesso meno propense a credere al cambiamento climatico, e dunque a cambiare i propri comportamenti.

Il terzo aspetto da non trascurare è la situazione abitativa. I residenti urbani infatti, nonostante possano godere di risparmio energetico grazie alle economie di scala tendono comunque ad avere un livello pro capite di emissioni più alto a causa del loro reddito (più altro in genere dei residenti rurali) e di spazi abitativi più ridotti.

Per poter progettare politiche di sviluppo è importante tenere presente tutte le caratteristiche demografiche nel loro complesso, e non basarsi soltanto sul numero della popolazione.

La sfida che si pone alla comunità internazionale e ai policy makers è ardua. Dato l’andamento classico delle curve demografiche è plausibile aspettarsi che le regioni a più lento aumento demografico vedano la popolazione aumentare ancora di molto prima che il tasso di crescita si stabilizzi e inizi a calare. Tuttavia, è ormai chiaro che imitare il percorso di sviluppo basato sullo sfruttamento intensivo delle risorse e dei combustibili fossili seguito in passato dalle regioni di meno recente industrializzazione è impossibile, se vogliamo avere ancora un Pianeta su cui vivere.

Servono politiche di sviluppo sostenibile che investano sulla salute e l’educazione e mirino a diminuire le disuguaglianze e la povertà.

Secondo il Jrc sono tre i campi di azione che si riveleranno cruciali nel prossimo futuro.

Il primo è quello della tecnologia; è necessario un radicale cambiamento tecnologico che si orienti verso l’innovazione green e le tecnologie a basso impatto ambientale.

In secondo luogo serve una spinta sociale e collettiva al cambiamento. Le società devono iniziare a interrogarsi seriamente sui propri valori e chiedersi se ha ancora senso che il mero sviluppo economico sia il principio guida dello sviluppo tout court.

Come ultimo è fondamentale l’impegno dei Governi. Solo attraverso un’efficiente collaborazione internazionale sarà possibile infatti definire, e seguire, un’agenda condivisa che consenta a tutti e tutte di godere dello sviluppo senza però dimenticarci della salvaguardia dell’ambiente.

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