Ambiente

Esiste una pesca sostenibile?

Il docufilm Seaspiracy mette a nudo quanto l’impatto catastrofico del climate change sia inesorabilmente condizionato dalla catena di pesca intensiva e dall’esubero di reti da pesca negli oceani
Credit: Netflix
Tempo di lettura 5 min lettura
28 maggio 2023 Aggiornato alle 08:00

Un viaggio alla scoperta delle minacce che annichiliscono gli oceani e minano la sopravvivenza di tutti gli ecosistemi marini. Questo il lavoro portato avanti da Ali Tabrizi, videomaker e appassionato fin dall’infanzia di mari e di tutte le creature marine che vi abitano.

Cresciuto con i documentari geografici di Jacques Cousteau, David Attenbrough e Sylvia Earle, porta avanti un giornalismo investigativo che smaschera molteplici forme di violenza nei confronti di tantissime specie di mammiferi marini e pesci da allevamento.

Il suo ultimo docufilm, Seaspiracy, punta a fare luce sull’apporto inquinante dell’esubero delle reti da pesca negli oceani, sull’impatto catastrofico che la pesca intensiva ha sull’ecosistema, e su quanto questo incida sul climate change.

Se all’inizio l’atmosfera illustrata è tendenzialmente romantica, con il passare dei minuti la linea narrativa cambia improvvisamente rotta: si iniziano a vedere balene spiaggiate imbottite di plastica e delfini morti con la pancia piena di immondizia. Queste due specie hanno una funzione fondamentale nella produzione dell’85% di ossigeno che respiriamo, soprattutto se si considera che quando emergono verso la superficie, rimescolano le acque garantendo così la sopravvivenza del fitoplacton, microorganismi che assorbono l’anidride carbonica e restituiscono l’ossigeno 4 volte più di quanto non facciano le piante dell’intera foresta amazzonica. Distruggerle significa distruggere l’essere umano.

La pesca intensiva e lo sfruttamento del mare

Il docufilm si concentra sul Giappone, Paese che porta avanti una caccia indiscriminata alle balene nell’Oceano Pacifico, nonostante il divieto internazionale in vigore dal 1986 e, secondo il fondatore del Dolphin Project Ric O’Barry, anche grazie alla corruzione delle forze dell’ordine, spesso costrette a intervenire con violenza nei confronti di tutti gli oppositori.

Ali Tabrizi documenta quello che succede a Taiji, dove ogni anni vengono massacrati circa 700 cetacei. Dal 2000 al 2015, infatti, per ogni delfino catturato ne sono stati uccisi 12, con la motivazione che i mammiferi marini mangiano troppo pesce e sbarazzandosene, si incrementa il mercato ittico, soprattutto quello del tonno rosso, particolarmente costoso. Seppur nel Pacifico sia rimasta in vita solo il 3% della specie, il fatturato è di 42 miliardi di dollari l’anno.

Anche gli squali sono sotto attacco, con uccisioni continue ed elevate. Il 50% delle loro morti avviene a causa della pesca accessoria portata avanti da pescherecci commerciali. Si tratta di 50 milioni di squali che muoiono per pesca accidentale, una cattura involontaria di una specie marina avvenuta mentre si pesca un altro esemplare; uscendo dall’acqua fianco a fianco al pesce destinato alle industrie, i cetacei indesiderati vengono poi ributtati in mare come immondizia, già morti perché soffocati prima.

I marchi della pesca sostenibile

Le scoperte del ventisettenne diventano ancora più impressionanti quando la lente d’ingrandimento si sposta sui grandi marchi come la Marine Stewardship Council, premiata annualmente con l’etichetta “salva delfini”. Come riportato dall’associazione Sea Shepherd, per uccidere 8 tonni vengono uccisi fino a 44 delfini, un modus operandi che riguarda anche i marchi che si dichiarano a favore di una pesca sostenibile. Tramite un’intervista a un rappresentante dell’Earth Island Institute, si capisce che nessuno è in grado di garantire una pesca di tonno ecologica e in contrasto all’inquinamento; se lo si dichiara è solo a scopo di marketing e senza davvero risolvere il problema, ma cercando di raggirarlo per sfruttarlo a suo vantaggio.

Mentre sui siti delle principali organizzazioni a difesa del mare si incitano le popolazioni a eliminare il consumo di cannucce di plastica e chewingum, nessuno parla della pesca commerciale come la prima minaccia di distruzione di tutte le barriere coralline del mondo.

Ma non solo, Seaspiracy rivela che il vero killer nel mare è il filo delle reti da pesca, presente in un quantitativo tale da avvolgere il Pianeta per 500 volte al giorno, che oltre a uccidere 250 mila tartarughe l’anno, inciderebbe per il 46% sull’inquinamento di plastica nel mare.

Esiste la pesca sostenibile?

Per intraprendere la strada della sostenibilità, alcuni esperti come la dottoressa Jane Hightower e il fisico Michael Klaper, suggeriscono di ridurre o eliminare il consumo di pesce, soprattutto se si considera che la catena alimentare acquatica è la fonte più concentrata di inquinanti industriali; vivere senza ci risparmierebbe molti metalli pesanti tossici come il mercurio e le diossine. Non esiste il pesce pulito, perché tutto l’inquinamento finisce in mare.

Se proteggiamo di più, peschiamo meno e riscostruiamo un ecosistema sano, c’è ancora speranza per le barriere coralline di tutti i mari, capaci di riprodursi velocemente. Tutto questo sarà possibile solo se saranno chiusi larghi tratti di mare alla pesca commerciale.

L’oceanografa statunitense Earle afferma: «Non è troppo tardi, possiamo ancora sperare di avere una casa in questo universo. Tutte le cose prodotte dalla civiltà sono partite da una sola persona; nessuno può fare tutto da solo, ma tutti possiamo fare qualcosa, e a volte le grandi idee fanno una grande differenza».

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